Le grandi navi

Le dichiarazioni di Franceschini sul problema delle grandi navi a Venezia hanno riacceso una polemica che in verità non si era mai spenta.

Franceschini, Ministro della Cultura e del Turismo, non lo conosco più di tanto, so che era un democristiano che quando con Tangentopoli si è dissolta la vecchia Democrazia Cristiana è stato uno dei fondatori dell’Ulivo, formazione politica in cui sono confluiti molti superstiti dei vecchi partiti che avevano per decenni fatto il bello e il cattivo tempo nel nostro Paese. Nell’Ulivo Franceschini si candidò anche al ruolo di segretario ma senza successo e, dopo la parentesi della Margherita in cui militò anche Matteo Renzi, insieme a molti altri confluì nel Partito Democratico. Dopo un periodo vissuto nell’ombra, forse grazie anche all’appoggio che la sua corrente ha fornito a Renzi, gli è stato affidato il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

La trovata di deviare le navi da crociera a Trieste è talmente dannosa per il nostro Comune da farci domandare in che mani stia l’arte che è la più grande risorsa del nostro Paese e l’unico “pozzo petrolifero” su cui possiamo contare. Mi lascia perplesso però il fatto che sull’argomento grandi navi a Venezia – ai centri sociali, ai comitati delle nobildonne, ai grillini, ai no grandi navi e all’estrema sinistra – si sia aggiunto anche il Ministro Franceschini. Credo che tutti costoro dimentichino la montagna di debiti in cui sta naufragando il nostro Comune. Nessuno inoltre pare preoccuparsi dei sette-ottocento dipendenti dell’indotto di questo tipo di turismo, per non parlare poi dei negozi di ogni genere che beneficiano dell’arrivo di oltre settemila croceristi, propensi a spendere, che le navi scaricano giornalmente nella nostra città.

Caro Sindaco, le grandi navi non le faccia entrare dal “Contorta”, dal “Vittorio Emanuele” o da qualsiasi altro canale ma trovi una soluzione accettabile senza lasciarsi intimidire da gente tanto scervellata e incosciente. Agisca però in fretta e ricordi che abbiamo eletto lei e non i figuri di cui sopra che non rappresentano nessuno se non la loro incoscienza.

Fallito?

Capita ogni tanto di leggere sulla stampa a carattere religioso, ma occasionalmente anche sui quotidiani e sui periodici d’informazione, sondaggi e statistiche sulla fede in genere ed in particolare sulla partecipazione alla Messa festiva. La sintesi di questi sondaggi rivela che vi sono notevoli differenze non solo tra le varie regioni d’Italia ma anche tra le parrocchie di una stessa diocesi. In Italia credo che i praticanti mediamente raggiungano a malapena il dodici per cento della popolazione con percentuali più elevate nel Veneto e più basse in Romagna, in Umbria ed in Liguria.

L’ultimo sondaggio promosso dalla diocesi di Venezia ha evidenziato una forbice molto larga con presenze che oscillavano tra l’otto per cento di alcune parrocchie e il quarantadue per cento di Carpenedo. L’anomalia di questo picco fortemente positivo era determinata da settecento fedeli provenienti da altre parrocchie che erano soliti partecipare alla Messa nella chiesa di Carpenedo.

Ora seguo ancora con attenzione queste dinamiche però, non avendo una responsabilità diretta, mi limito a farlo da osservatore esterno subendo limitatamente il peso della preoccupazione. Quello che invece mi tocca più direttamente è la partecipazione dei fedeli alla Messa nella mia “cattedrale tra i cipressi”, questa chiesa però è particolarmente consolante perché, anche se nei periodi di caldo e freddo estremi una decina di sedie tra le 220 disponibili restano libere negli altri periodi è sempre al completo, anzi spesso c’è gente in piedi e altri ascoltano la funzione all’esterno della chiesa.

Il punto “dolens” nel mio animo di prete è invece la partecipazione dei 250 residenti del Don Vecchi 1 e 2 dove anch’io abito. Qui nonostante la Messa si celebri in casa e quindi non ci siano difficoltà di sorta credo che in media non si raggiunga il cinquanta per cento di presenze. L’età avanzata, la struttura offerta dalla chiesa ed infine il sacerdote in casa non riescono a raccogliere una partecipazione maggiore. Qualcuno mi dice che va a Messa fuori e qualcun altro, anche se si professa cristiano, diserta quasi abitualmente l’incontro con il Signore. Sapeste quante volte mi verrebbe da dire: mi ritiro in una casa di riposo per non aver più questo peso sulla coscienza.

Sono purtroppo in pena!

Credo che tutti i lettori ormai sappiano che io scrivo quando ho tempo e soprattutto quando penso d’avere qualcosa da comunicare per il bene della fede, dei poveri e della mia città. Tanti lettori infatti mi dicono di aver scoperto che certi temi sviluppati nelle mie “Riflessioni” si riferiscono ad eventi vecchi di almeno un paio di mesi ma quando l’articolo viene stampato, anche se fa riferimento ad episodi datati, il messaggio che volevo trasmettere generalmente non perde la sua efficacia. Cosa pretendete, amici miei, da un prete di quasi novant’anni? Che cosa vi aspettate da me?

Vorrei rendervi partecipi della confidenza di un mio insegnante di settant’anni fa: “Caro Armando, sappi che io usualmente quando acquisto il giornale, per poterne valutare efficacemente la consistenza e la correttezza dei contenuti, lo lascio sul tavolo per almeno un mese”. Io non commento notizie e fatti datati per scelta come faceva lui ma per necessità, spero comunque che le ansie, le preoccupazioni, i sogni e i progetti di un vecchio prete possano essere di una qualche utilità anche per gli altri.

Vengo al sodo: oggi è il primo di ottobre e lunedì 19 ottobre sogniamo di aprire il “Ristorante” per i poveri occulti: i cittadini monoreddito, quelli che hanno stipendi da fame o peggio ancora sono disoccupati, cassaintegrati, ecc. So per certo che l’accettare quest’offerta richiederà loro molto coraggio anche se la proposta offre un ambiente signorile, un servizio inappuntabile ed un centro di cottura eccellente. Lo staff che si è fatto carico di questa impresa, e che ha come responsabili i coniugi Graziella e Rolando Candiani, ha fatto l’impossibile per far conoscere questa iniziativa benefica. Tutte le emittenti televisive e le testate dei giornali cittadini ne hanno parlato più volte ed inoltre abbiamo scritto a tutti i parroci, alle assistenti sociali e alle agenzie della solidarietà cittadina.

L’organizzazione del Ristorante è più che adeguata a ricevere un numero consistente di commensali grazie anche al contributo dell’Associazione Vestire gli Ignudi e al reclutamento di più di una trentina di volontari. Per me rimane un’incognita e una preoccupazione: le parrocchie conoscono veramente i loro parrocchiani in difficoltà e hanno strumenti per contattarli e convincerli ad approfittare di questa opportunità? Confesso che mi spiacerebbe “perdere” ma se ciò avvenisse saprei di aver fatto l’impossibile per “vincere”.

Verso le seimila copie

Da quel poco che vengo a sapere pare che tutta la carta stampata sia in crisi. Non c’è quotidiano, settimanale o mensile che affermi di incrementare la propria tiratura, anzi. Ultimamente poi mi hanno detto che anche le emittenti televisive stanno perdendo spettatori. Le testaste giornalistiche forse sono troppe o forse la gente preferisce destinare le magre risorse al cibo piuttosto che alla cultura e all’informazione.

Questo fenomeno però, una volta ancora, mi preoccupa soprattutto per quanto riguarda l’informazione religiosa e pastorale, una volta ancora ripeto la mia amarezza e la mia preoccupazione per quello che riguarda i mass-media della Chiesa veneziana e del Triveneto. Radio Carpini, l’emittente che vent’anni fa ho consegnato alla diocesi con i suoi duecento volontari e con la sua rete di ripetitori che “copriva” tutte le zone pastorali della diocesi e che dal Monte Torrion raggiungeva una larga fascia di territorio fino a raggiungere perfino Ravenna, è stata chiusa ormai da tempo e l’emittente Telechiara, al cui “battesimo” ho partecipato anch’io in tempi in cui pareva che nel Triveneto ci fosse un sussulto di entusiasmo per i mass-media, l’anno scorso è stata venduta ad un gruppo di imprenditori padovani. Gente Veneta, il settimanale di cui ero tanto fiero fino a poco tempo fa, pare stia arrancando faticosamente.

Tutto questo però non m’induce a demordere “nonostante l’età” ma anzi mi sprona ad un impegno maggiore soprattutto per quanto riguarda la Chiesa di Mestre. La nostra editrice stampa il mensile “Sole sul nuovo giorno” in 250 copie, “Il messaggio di Papa Francesco” in 500 copie settimanali e “L’incontro” si avvia ormai verso le seimila copie settimanali. La consapevolezza dell’esigenza di una proposta religiosa che raggiunga il maggior numero di concittadini possibile e della necessità di riqualificare il settimanale con ulteriori apporti di gente capace, mi ha spinto a chiedere aiuto a qualche sacerdote e a qualche laico. Mi auguro di tutto cuore che tante risposte generose vengano a tamponare la grossa falla che mette in grave pericolo i mass-media diocesani.

Il sordomuto

Fin troppe volte ho confidato agli amici il tormento che mi provoca il dover prendere frequentemente la parola per riproporre il messaggio di Cristo. L’importanza del messaggio evangelico e l’amore che porto alla mia gente sono tali da farmi desiderare di essere un brillante comunicatore, non tanto per ottenere il plauso degli ascoltatori ma per offrire il dono della parola di Dio di cui tutti abbiamo estremo bisogno.

Questo tormento, che mi accompagna da sessant’anni, tanto è il tempo che il Signore mi ha finora concesso per offrire al Popolo di Dio questa semente, ha però almeno un aspetto positivo quello di costringermi ad una riflessione personale che tuttora mi fa scoprire motivazioni che riescono a incidere sui miei comportamenti e a farmi vivere una vita cristiana più seria e coerente.

Qualche settimana fa la liturgia della Chiesa mi ha riproposto, una volta ancora, il miracolo di Gesù che guarisce un sordomuto. Gli evangelisti molto probabilmente ce lo hanno trasmesso sia per dimostrarci che Gesù è il figlio di Dio e in quanto tale può derogare alle leggi naturali sia per insegnarci ad aiutare il nostro prossimo. Ritengo tutto questo quanto mai giusto però a me piace poi cogliere soprattutto i risvolti esistenziali delle scelte e dei comportamenti di Gesù. Il miracolo mi pare sia un invito pressante ad aprirci agli altri, a comunicare, a donare il meglio di noi stessi, a dialogare con tutte le realtà che fioriscono dall’accettarsi e dal volersi bene anche se purtroppo spesso le cose non stanno proprio così. A questo proposito ricordo un passaggio di un poeta giapponese che diceva pressappoco: “In autobus, negli ipermercati, nelle piazze siamo così pigiati l’uno contro l’altro da avvertire la fisicità del prossimo però, a livello esistenziale, pare che tra l’uno e l’altro passi la muraglia cinese che ci divide e ci fa ignorare che l’altro ha bisogno della tua umanità così come tu hai bisogno della sua”. L’invito perentorio di Cristo: “Apriti” risuona nel mio cuore come una parola ineffabile, che mi fa intravedere il vero “miracolo” dell’accettarci: il sentirsi cittadini del mondo e figli dello stesso Padre.

I silenzi del sindaco

Ho già scritto che avevo deciso, fin dal momento in cui è stata ufficializzata la vittoria di Brugnaro, che avrei rispettato i giorni della luna “di miele” o meglio i primi cento giorni di governo della città. Questo silenzio però non può durare più a lungo. Ormai da decenni ho sentito il dovere e il bisogno di donare il mio cuore e la mia voce a chi non ha voce e i poveri appartengono certamente a questa categoria.

Quando incontrai Brugnaro al Don Vecchi, durante la campagna elettorale, egli mi concesse qualche momento di colloquio personale ed io ne approfittai per raccomandargli che se fosse stato eletto sindaco avrebbe dovuto riservare una particolare attenzione ai concittadini meno abbienti e sviluppare un dialogo costruttivo con le persone che gestiscono il privato sociale perché essi rappresentano il meglio della popolazione in quanto sono i cittadini più generosi, più intraprendenti e più disinteressati. Sia prima che dopo la sua elezione a sindaco scrissi a Brugnaro a titolo personale e come cittadino particolarmente interessato alle sorti della nostra città e soprattutto della popolazione più svantaggiata e, affinché il nuovo sindaco si ricordasse di questa “voce scomoda”, ogni settimana gli ho inviato copia de “L’incontro”.

A tutto questo però ha risposto con un “assordante silenzio”. Per essere benevolo ho pensato che a causa dei debiti comunali e della conseguente necessità di risparmiare egli avesse smobilitato la segreteria del Comune della quale, già in passato, conoscevo la sovrabbondanza di personale e che perciò fosse in difficoltà nel rispondere: penso però che almeno una segretaria possa permettersela! Ho incontrato il giovane assessore alla sicurezza sociale però anche questo colloquio non ha prodotto risultato concreti! Ora un caro amico mi ha assicurato che mi procurerà un nuovo colloquio ma se non dovessi riuscire a cavare un ragno dal buco dovrò decidermi a parlare alla nuova amministrazione comunale attraverso l’opinione pubblica, come ho sempre fatto in passato ottenendo anche qualche risultato.

Gli amici telematici

Mi sorprendono e mi stupiscono alquanto i miei colleghi preti, sia anziani e purtroppo anche giovani, che non hanno compreso l’assoluta necessità di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione.

A me piace il suono delle campane e quando ero parroco più di qualche parrocchiano si lamentava che le suonavo troppo. Un giorno ho avvertito la necessità di utilizzare il campanile della mia parrocchia, di quelle di Caorle, di Jesolo, di Mira, di Burano e perfino il campanile di San Marco per collocare i trasmettitori di Radio Carpini con cui riuscivamo a trasmettere il messaggio in cui credo ad almeno un milione di potenziali ascoltatori.

Lo stesso successo lo abbiamo ottenuto con la carta stampata e in queste ultime settimane stiamo raggiungendo una tiratura di quasi seimila copie per il settimanale “L’incontro”.

Spessissimo incontro persone che si rivolgono a me come fossi un loro amico d’infanzia e quando chiedo loro se mi conoscono tutti mi ripetono: “Come si fa a non conoscerla sappiamo tutto di lei e delle sue imprese solidali.” Questo mi rende molto felice perché mi conferma che “ho fatto centro”. Una volta un primario dell’Angelo mi disse: “Ce l’ho con lei”, al che obiettai: “Perché?” e lui continuò: “Perché mi turba la coscienza con i suoi scritti!”. Non poteva dirmi cosa più bella.

I miei amici sanno che in questo periodo sono tutto preso dall’apertura del nuovo ristorante per i poveri che vivono in silenzio e con dignità la loro difficile situazione ma come avrei potuto comunicare questa notizia ai miei quattrocentomila concittadini di Mestre e Venezia? Mi sono detto: “So io cosa fare!”. Qualche telefonata e le testate cittadine: Il Gazzettino, La Nuova Venezia e Il Corriere del Veneto mi hanno subito offerto il loro “megafono”. Qualche altra telefonata e “Rai Tre”, “Televenezia”, “Telechiara” e “Rete Veneta” mi hanno subito messo a disposizione i loro teleschermi”. Non so se riuscirò a bucare ma se non avessi questi amici telematici sono certo che fallirei.

I nuovi “misteri”

Come tutti sanno io non solo sono del secolo scorso ma addirittura dell’altro millennio. L’educazione, la cultura, il tipo di religiosità, la dialettica e soprattutto la capacità di usare i mass-media sono qualcosa che potrei paragonare ad un bollo sopra una lettera infatti, purtroppo, non sono riuscito a padroneggiare queste tecniche e questi strumenti di dialogo e di proposta. In verità questi strumenti non li ho mai rifiutati, li ho anzi apprezzati quanto mai perché li ritengo indispensabili per uno come me che desidera annunciare il Vangelo a tutti, proprio a tutti ma purtroppo per farlo sono costretto ad avvalermi dell’aiuto di gente più giovane, gente che più di me è parte di questo “mondo nuovo”. Io scrivo ancora a mano con la penna biro consapevole che la biro rappresenta il livello più alto di modernità che sono riuscito a raggiungere.

Mi è capitato di vivere in un’epoca nella quale tutto si evolve con una velocità che per quanto io mi sforzi di correre perdo sempre più terreno. Da ragazzo ho letto “Piccolo mondo antico” di Fogazzaro, romanzo in cui ho colto il risucchio e la tenera nostalgia del passato e il disagio nel comprendere il mondo nuovo, accettando i cambiamenti causati da sessanta settant’anni di evoluzione, oggi però questo lasso di tempo ha inciso tanto profondamente sul nostro modo di vivere da trasformare il passato prossimo in passato remoto in un soffio e da renderci perfino difficile immaginare il futuro.

Io comunque vivo bene lo stesso, guardo con simpatia i tempi nuovi e mi faccio aiutare dai più giovani per non apparire simile all’uomo delle caverne.
Mi piacerebbe un mondo saper usare con disinvoltura Internet e quell’aggeggio misterioso chiamato smartphone. Mio papà mi raccontava che mio nonno un giorno riferì alla famiglia allibita che nell’osteria, dove andava a giocare a tresette, avevano acquistato “una scatola che parlava”, io non sono a questo livello ma comunque ho collocato tra i misteri ai quali è giusto credere anche questi strumenti di comunicazione sociale e così facendo mi trovo bene.

Il male oscuro

Credo che sia abbastanza ovvio affermare che le malattie più pericolose sono quelle di cui non si sa di essere affetti. Mi è capitato più volte che qualcuno mi abbia confidato che mentre pensava di stare bene un male subdolo e senza sintomi evidenti stava minando la sua salute tanto che quando se n’è reso conto era tardi e talvolta troppo tardi.

Ho letto tempo fa un interessante articolo di Carlo Carretto, il famoso presidente dei giovani di Azione Cattolica, che quando venne rimosso dal suo ruolo perché ritenuto scomodo dalle gerarchie ecclesiastiche, ha scelto di farsi religioso nell’Ordine dei “Piccoli Fratelli di Gesù” di Charles De Foucauld. Carretto scriveva che la febbre o un qualsiasi dolore sono una grazia del cielo perché rappresentano un campanello d’allarme che ci avverte del pericolo perché sono i sintomi del male subdolo ed oscuro che ci sta minacciando.

Qualche giorno fa una troupe di Raitre è venuta da Roma al Don Vecchi per fare un “servizio” sul nuovo ristorante, destinato alle famiglie in difficoltà, e sull’impegno della Fondazione dei Centri Don Vecchi a favore dei poveri. L’intervistatrice non mi è parsa un granché perché mi è sembrato cercasse di pescare nel torbido facendo emergere la diffidenza nei riguardi degli extracomunitari e dei profughi piuttosto che sottolineare quanto la Fondazione ha fatto e sta facendo per i vecchi, per chi ha bisogno e anche per i fratelli che fuggono dalla guerra e dalla miseria.

Pensavo che le immagini tragiche che la televisione ci mostra ogni giorno di quegli uomini, donne, bambini, affamati, stanchi, disorientati avessero turbato, impietosito e fatto emergere sentimenti di pietà, di condivisione e di generosità e che l’esplicito monito di Papa Francesco “a non voltarsi dall’altra parte, invitando ogni comunità a farsi carico di una famiglia” avessero convinto tutti. Invece con infinita sorpresa e tristezza ho sentito riserve, preoccupazioni, stupide paure, egoismo, timore per il proprio benessere e per la propria tranquillità. Cari vecchi lasciate che vi dica che, anche senza saperlo, portate dentro di voi i peggiori virus e i più malefici bacilli quali l’egoismo, il razzismo, la mancanza di generosità e di consapevolezza che siamo tutti fratelli, che dobbiamo darci una mano e pensare ai più poveri e ai più provati. Vecchi miei curatevi e presto perché questi bacilli portano alla morte del cuore e dell’anima. Se poi il bacillo dell’egoismo si diffondesse sareste i primi a subirne le conseguenze perché nessuno penserebbe più a voi come è stato fatto finora.

Televenezia

In Via Piraghetto, nella sede di Televenezia, c’ero già stato in precedenza per un’intervista però, quando un ex generale dei carabinieri che collabora con quell’emittente mi ha chiesto di partecipare ad una rubrica che lui conduce, ho accettato subito e con entusiasmo.

Avevo un rospo nell’animo che non sapevo come buttare fuori e finalmente l’intervista televisiva mi permetteva di chiarire ai miei concittadini la vicenda dei profughi, dell’aiuto ai poveri di casa nostra e del pasticcio che è nato quando don Gianni, presidente della Fondazione Carpinetum, ha comunicato alla stampa che al Don Vecchi non abbiamo pensato solamente ai profughi, mettendo a loro disposizione due alloggi, ma anche ai poveri di casa nostra con l’apertura del ristorante che offrirà la cena ai concittadini che soffrono in silenzio e con dignità. La stampa ha dato un’interpretazione faziosa e reazionaria di questo annuncio quasi che la Fondazione volesse scusarsi con Salvini per aver pensato ai profughi e non alla nostra gente.

Spero che i miei successivi interventi al Gazzettino, al Corriere del Veneto, a Raitre, a Telechiara, a Rete Veneta e a Televenezia e la lettera che ho inviato a tutti i parroci e agli operatori sociali della città abbiano rimesso le cose a posto. La Fondazione non fa solo chiacchiere, come sta facendo Salvini, ma fatti: attualmente ha messo a disposizione degli anziani poveri quattrocento appartamenti e offre aiuto a più di tremila famiglie distribuendo vestiti, mobili, frutta, verdura, generi alimentari dimostrando abbondantemente, se mai ce ne fosse bisogno, la sua attenzione e il suo impegno concreto nei confronti della povera gente mestrina, italiana, dei paesi dell’Est e della sponda africana e ora, con il ristorante, sarà offerta la cena a centodieci famiglie in difficoltà indipendentemente dal colore della pelle e dalla religione professata.

L’opportunità di parlare per mezz’ora a ruota libera dagli studi di Televenezia comunque mi ha permesso di affermare, in modo chiaro e senza ambiguità, che la solidarietà deve essere per tutti altrimenti non è assolutamente solidarietà e che atteggiamenti razzisti, discriminatori, ed egoisti sono una autentica infamia per chi li promuove ma anche per chi li custodisce nel proprio animo.

Bianco su nero

Riflettendo sulle sensazioni che provo nell’impatto con realtà con le quali non ho né dimestichezza né rapporti frequenti, ho capito che nel mio animo avviene un processo di ripensamento, quasi una rimuginazione, con la quale rielaboro le sensazioni stesse e le immagini dell’ambiente in cui vengo a trovarmi.

Recentemente sono stato ricoverato per quattro giorni in ospedale per un problema che fortunatamente si è rivelato banale ma che di primo acchito si temeva potesse essere una paralisi o una ischemia cerebrale. Io nel nostro ospedale ci vado due volte alla settimana per portarvi un migliaio di copie de L’Incontro, motivo per cui ho molta dimestichezza con questa struttura della quale vado orgoglioso sia per la sua notevole bellezza architettonica sia per la sua funzionalità. Una cosa però è entrare in ospedale, immergersi nel giardino interno e percorrere velocemente il grande sentiero pensile del primo piano, altra cosa è entrarvi per essere ricoverati. L’ospedale ha le sue liturgie ben precise e complicate, offre un’atmosfera particolare e soprattutto ti fa sentire come una creatura debole ed indifesa che dipende, anima e corpo, dai camici bianchi.

In ospedale purtroppo ci sono stato molte altre volte e non solo a Mestre, nell’ultimo ricovero però mi ha particolarmente colpito e fatto riflettere la presenza di un giovanottone robusto la cui faccia e le cui braccia erano nere come l’ebano ed emergevano ancora più marcatamente nere dal camice bianco che indossava. Un secondo incontro, ma non a livello personale, l’ebbi con un medico sempre di colore e il terzo con un’infermiera, di pelle decisamente nera, chiacchierona ed affettuosa che mi ha accompagnato per un esame: tutti cordiali, professionalmente preparati e disponibili. Questi incontri mi hanno fatto pensare che il mondo sta diventando un villaggio globale dove l’incontro tra culture, religioni, tradizioni e costumi è ormai un fatto ineluttabile che nessuno potrà mai fermare.

Ho concluso quanto sia bello ed inebriante sentirci tutti figli di uno stesso Padre e fratelli con qualità diverse ma che possono essere una risorsa per tutti. Infine pensando a Salvini e compagni ho provato un sentimento di malinconia e di commiserazione.

Primo e secondo raccolto

Pur conscio di ripetermi, sento il dovere di affermare che impegnarsi per il prossimo non solo non rappresenta una passività ma anzi produce risorse. Ripeto questa mia riflessione per i comuni cittadini ma soprattutto per i miei colleghi che reggono le parrocchie della nostra città. Noi cristiani non dovremmo assolutamente sorprenderci di queste parole, anzi per noi dovrebbero essere ampiamente scontate perché Gesù, nostro maestro, ha affermato a chiare lettere: “Riceverete il centuplo in questa vita e il gaudio eterno nell’altra”. Non credo che Gesù abbia detto queste cose tanto per dire, quindi essere suoi discepoli comporta credere e agire di conseguenza.

Ho fatto questa premessa perché sono in grado di fornire una dimostrazione che tutti possono verificare. Vengo alla prova. Una delle associazioni di volontariato del “Polo solidale”, che vive in simbiosi con il Centro Don Vecchi di Carpenedo, è certamente l’associazione “Vestire gli ignudi” che gestisce una sorta di ipermercato sempre quanto mai affollato che veste i concittadini che versano in disagio sociale. Gli indumenti non sono assolutamente venduti come nei comuni negozi, agli acquirenti viene chiesta un’offerta per la dignità di chi ha bisogno, per coprire le spese di gestione ma soprattutto per creare in città una mentalità solidale grazie alla quale tutti coloro che ricevono un aiuto abbiano l’opportunità di aiutare loro stessi chi è più povero. L’ipermercato “Vestire gli Ignudi” è visitato ogni anno da venti-trentamila persone e quest’associazione è riuscita in alcuni anni a racimolare trecentomila euro. In questi giorni ha vuotato la cassa offrendo il pranzo gratuitamente per tutto quest’anno e per il prossimo a sessanta anziani con reddito minimo spendendo centocinquantamila euro ed inoltre ha destinato una somma di pari importo per arredare la nuova struttura con la quale si tenterà di rispondere alle criticità abitative. Come vedete Gesù è di parola e quello che ha promesso lo mantiene.

Il nuovo ristorante

Non sto a ripetere ai miei amici come è nato il progetto di aprire un ristorante per le persone in difficoltà che soffrono in silenzio, che si vergognano di chiedere aiuto e che non bussano alle porte del comune o della parrocchia.

Per almeno cinquant’anni sono stato l’assistente della San Vincenzo cittadina motivo per cui, infinite volte, mi sono sentito ripetere, soprattutto da quelli che normalmente non scuciono un solo euro per i poveri e che sanno solo criticare, che noi aiutiamo i fannulloni, quelli che sono poveri per mestiere, quelli che dovrebbero essere costretti a guadagnarsi il pane con il sudore della loro fronte mentre trascuriamo i veri poveri, quelli che meriterebbero di essere aiutati. Accusare e criticare è la cosa più facile di questo mondo mentre risolvere i problemi concreti è ben più difficile. Comunque sono sempre stato convinto che nella critica ci sia un po’ di verità.

Quando mi si è presentata inaspettatamente un’opportunità che sa di miracolo, nonostante i miei quasi novant’anni ho sentito il dovere di raccogliere le poche forze residue e di tuffarmi, anima e corpo, in questa nuova esaltante avventura solidale. Come Napoleone, mi si perdoni il paragone, mi sono rivolto ancora una volta alla mia gloriosa vecchia guardia: Graziella e Rolando Candiani che per vent’anni mi hanno affiancato nelle battaglie fortunatamente vinte per i Don Vecchi. Ho poi dato fuoco alle polveri attraverso: Gazzettino, Corriere del Veneto, Gente Veneta e tutte le testate televisive che sono riuscito a contattare per coinvolgere l’opinione pubblica, quindi ho cominciato a parlare ovunque e con tutti di questo progetto ambizioso ma nobile, progetto volto a convincere tutti coloro che sono in difficoltà affinché trovino l’umiltà per accogliere positivamente l’aiuto che viene loro fraternamente offerto. Ora per tornare a Napoleone sto vivendo la vigilia tormentata di questa impresa solidale. Spero, con tutte le mie forze, che dopo aver vinto tante battaglie questa non sia la mia Waterloo.

Il prossimo

Io ho sempre creduto alla necessità di usare al meglio i mezzi di comunicazione per offrire, alla gente del nostro tempo, il messaggio di Gesù. Quando penso che tutti i preti di Mestre riescono a parlare di Dio solamente al dieci per cento dei mestrini vengo colto da vertigini e da angoscia.

Nella mia vita sacerdotale, in tutte le attività pastorali affidatemi, ho sempre cercato di instaurare un dialogo con il maggior numero possibile di concittadini. Quando più di una quarantina d’anni fa mi fu affidata la San Vincenzo, che allora poteva contare solo su un numero assai modesto di persone e che praticamente viveva ai margini del pubblico interesse, diedi vita ad un mensile che chiamai “Il Prossimo”, in linea con l’impegno dei vincenziani nel creare un mondo di fratelli e di “farsi prossimo” soprattutto nei confronti dei più deboli e dei più bisognosi ma purtroppo, con mio grande dispiacere e disappunto, questa testata è stata chiusa. A mio umile parere “Il Prossimo” aveva fatto rifiorire la S. Vincenzo e questa aggregazione di cristiani ha dato voce ai più poveri di Mestre e fatto nascere belle e promettenti realtà.

Un mese fa il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum ha deciso di unificare i gruppi di volontariato di quello che io ho sempre chiamato, con una certa enfasi: “Il Polo Solidale del Don Vecchi”, realtà diventata ormai la struttura caritativa di gran lunga più importante di Mestre e al suo posto è stato creato un nuovo ente no-profit in cui sono confluiti tutti i gruppi di volontariato. In quell’occasione ho suggerito immediatamente di chiamarlo “Il Prossimo”, un po’ per onorare la memoria della vecchia e gloriosa testata a cui ero molto affezionato ed un po’ perché i volontari fossero più consapevoli di lavorare per il prossimo e non per altri scopi.

Io ho condiviso la scelta della Fondazione, volta a creare una maggiore sinergia tra i vari comparti per abbassare le spese e per razionalizzare questa significativa entità di ordine solidale, ma nel mio animo c’è anche la segreta speranza che la nuova struttura organizzativa aiuti a rinvigorire i vincoli di fraternità cristiana fra i duecento volontari e soprattutto li renda maggiormente coscienti che l’obiettivo fondamentale è quello di amare concretamente il nostro prossimo.

Annina

Il suo vero nome era Anna Maria ma a lei faceva piacere che la gente la chiamasse Annina, un vezzeggiativo che le risultava particolarmente gradito. Vent’anni fa, quando la incontrai per la prima volta, aveva già visto passare parecchie primavere e forse Annina, quel vezzeggiativo con cui amava essere chiamata, le faceva sentire meno il peso degli anni. La conobbi in cimitero, luogo in cui la grave ferita che faceva sanguinare il suo cuore di mamma per la perdita prematura della sua unica figlia, la conduceva ogni giorno, in maniera irresistibile, a visitarne la tomba. Dalla tomba passare alla chiesa del camposanto, ove trovava parole di rassegnazione e di conforto, il passo è stato assai breve. In poco tempo divenne una fedele assidua tanto da cominciare a far parte di quel piccolo gruppo di “vecchine”, come le chiamava Piero Bargellini, che un tempo erano parte integrante delle nostre chiese come i confessionali, i candelabri o le pile dell’acqua santa.

Ora le diocesi fanno corsi di preparazione per i cosiddetti “ministranti”, cioè chierichetti e assimilati ai sagrestani, da me però il gregge era così ridotto che l’Annina ed altre due colleghe facevano un po’ di tutto: pulire la chiesa, seguire le Messe, preparare l’altare per la liturgia e senza alcuna preparazione dispensare parole buone ai fedeli che il lutto accompagnava nella chiesa del cimitero.

Il mio pensionamento e il ricovero a Cavaso del Tomba di questa mia cara aiutante ci separarono e solamente questo pomeriggio, dopo quindici anni, Annina è ritornata nella chiesa del cimitero perché le dessi l’ultimo saluto e l’ultimo abbraccio caro e affettuoso. La predica è diventata un colloquio e il legno della bara non mi ha impedito di rivederla attenta e felice delle parole calde che mi sono sgorgate dal cuore. Mentre “colloquiavo” con lei mi è tornato alla mente un particolare della sua frequentazione della piccola chiesa del camposanto: era solita ogni giorno cogliere un fiore e porlo tra i chiodi dei piedi del crocifisso e colloquiare con Cristo in tono talora affettuoso e talora imbronciato ma prima di andarsene non mancava mai di salutarlo affettuosamente con un: “Ciao Gesù”. Ora spero che questa centenaria abbia la pazienza di aspettare almeno un po’ questo novantenne per ravvivare la nostra cara amicizia.