Sto cambiando lavoro

Credo che il Signore mi abbia dato ancora sufficiente lucidità per riconoscere i miei limiti e le mie residue possibilità.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una frase del famoso polemista convertito alla fede in età matura, che si rivolge a Dio con questa preghiera: “Mio Dio, donami abbastanza serenità per accettare quello che non si può cambiare. Mio Dio, donami abbastanza coraggio per cambiare quello che si può cambiare. Mio Dio, donami abbastanza saggezza per discernere l’uno dall’altro”.

Sulla falsariga di questo pensatore cristiano, ho sentito anch’io il bisogno di rivolgermi al Signore con questa preghiera: “Mio Dio, donami saggezza perché comprenda quello che non posso e non devo più fare. Mio Dio, donami abbastanza coraggio per tagliare su quello che non è più alla mia portata e ancora buona volontà per occuparmi a far bene quello che posso ancora fare. Mio Dio, aiutami a fare questa scelta non per egoismo o per comodità, ma per fare al meglio quello che riesco ancora a fare, date le mie residue forze fisiche e mentali”.

E’ ormai da tanto che rifletto su questo problema, conscio che non sono più sufficientemente disponibile ad accettare il nuovo senza resistenze, a elaborare il pensiero in maniera lucida e saggia così da essere utile a qualcuno, a portare il peso e la responsabilità di dover decidere senza farmi perdere la serenità e la pace.

Queste considerazioni mi stanno facendo riflettere se sia giunto il momento di chiudere con “L’Incontro”, di lasciare la direzione dei Centri don Vecchi e il coinvolgimento in prima persona con le associazioni di volontariato del Polo solidale. Ricordandomi però del proposito fatto da tempo che “desidero incontrare la morte da vivo” sto elaborando un nuovo progetto di vita che sia compatibile con le risorse della quarta età nella quale mi sono già inoltrato da un pezzo.

La prima bozza di programma che mi passa per la testa è quello di trascorrere l’intera mattinata nella mia “basilica tra i cipressi” per le celebrazioni liturgiche e per offrire disponibilità a chi vuole incontrare un sacerdote che non ha fretta e che è disposto ad ascoltare, condividere e pregare.

Mentre il pomeriggio lo vorrei dedicare ai residenti dei Centri don Vecchi, soprattutto a quelli che non escono e che rimangono sempre a casa per la loro parziale autonomia. Di questi “parrocchiani” ne ho 250 al “don Vecchi” di Carpenedo, 65 in quello di Marghera, 70 in quello di Campalto e 65 agli Arzeroni. Ora sto aspettando dal Signore la risposta alla mia preghiera e poi farò una scelta coerente.

13.08.2014

Apertura degli archivi segreti

Alcuni anni fa don Franco De Pieri, erede e ultimo collaboratore di monsignor Vecchi, ha dato vita ad una fondazione che portava il suo nome. In occasione di una qualche ricorrenza significativa della vita e della morte di monsignore, attraverso questa fondazione, don Franco ha pubblicato un opuscolo che raccoglieva le testimonianze di diverse persone che avevano avuto rapporti con questo sacerdote il quale ha ben meritato nei confronti della nostra città.

Sono cosciente che ad oltre trent’anni dalla sua morte molti mestrini conoscono il nome di don Vecchi perché i nostri Centri, che abbiamo voluto portassero il suo nome, l’hanno reso universalmente noto, pochi però conoscono la vita e le opere di questo monsignore. Per questo motivo ho pubblicato su “L’Incontro” testimonianze che lo riguardano estrapolandole da suddetto opuscolo.

Avendo esaurito tali testimonianze, ho chiesto al prof. Andrighetti, che sapevo aveva anche lui pubblicato un volume sui sermoni e sulle meditazioni di monsignore, se aveva qualche scritto da offrirmi. Il signor Andrighetti, con tanta gentilezza, mi ha regalato non solamente il suo volume, ma anche quello scritto dal giornalista di Gente Veneta Paolo Fusco.

Il volume di Fusco mi era già stato donato, ma l’ho smarrito al tempo del trasloco da Carpenedo al “don Vecchi”. Ho cominciato a leggere la biografia di Fusco non solamente perché Fusco ha uno stile agile e piacevole, ma anche perché per più di un trentennio sono vissuto a stretto contatto con monsignore, prima perché suo allievo al liceo, poi come suo cappellano a San Lorenzo e quindi come sacerdote nella chiesa mestrina di cui lui era il delegato del Patriarca.

La storia di monsignore è perciò quanto mai intersecata anche col mio passato e quindi ero quanto mai curioso di conoscere certi retroscena che non avevo mai conosciuto: opinioni nei miei riguardi da parte dei protagonisti della Chiesa veneziana di quei tempi ed anche progetti, reazioni di monsignore che m’erano ignoti.

La lettura del volume mi ha dato la sensazione della scoperta di trame sconosciute della storia, che vengono a galla solamente quando i preposti agli archivi o l’autorità autorizzano la loro consultazione. Fusco ha fatto un lavoro immenso e sta facendomi conoscere un monsignor Vecchi che assolutamente non conoscevo.

Tornerò di certo su questo volume perché ha fatto luce obiettiva su decenni della storia della Chiesa veneziana. A mò di esempio sono venuto a sapere che monsignore ambiva ad essere il responsabile della Chiesa mestrina, mentre Patriarca e curia erano e sono ancora lontani mille miglia da questa visione.

Monsignore desiderava abbandonare la mansione di parroco per vivere appieno quella di delegato patriarcale – e questo lo sapevo perché aveva già comperato la sede a tale scopo – non sapevo però che mi aveva ingenuamente proposto come parroco di San Lorenzo, cosa che era inimmaginabile. Anche don Vecchi fu un ingenuo.

12.09.2014

Il magone

Il “mestiere” del prete è difficile, ma quello di un prete che crede doveroso occuparsi dei poveri è quasi impossibile.

Mentre mi accingo a buttar giù queste povere note, la televisione ha appena dato notizia della morte di don Gelmini, una delle più belle figure di prete in Italia, che ha lasciato questo mondo portando con sé un dramma atroce e lasciando anche a chi lo ha stimato un punto di domanda amaro.

Approfitto di queste righe per esprimergli comunque la mia ammirazione, se non altro per la sua scelta di non coinvolgere la Chiesa nel suo dramma e nel voler difendersi di persona e non all’ombra della tonaca e della Chiesa.

Vengo al mio più piccolo dramma, ma sempre dramma. Un paio di giorni fa mi ha telefonato un signore – che poi si è rivelato in realtà poco signore e molto povero – chiedendomi un appuntamento su suggerimento di un medico che mi conosceva molto bene. Insistei che mi dicesse il motivo di questo incontro ma capii subito che voleva chiedermi soldi. L’informai della nostra organizzazione di carità che reputo efficiente, che però non ha scelto e non può distribuire soldi. Gli indicai la Caritas, la San Vincenzo e il Comune.

Egli però ebbe buon gioco a dire che in questi giorni tutto è chiuso per ferie. Però cadde la linea e quindi mi misi il cuore in pace. Questa mattina però mi telefonò il “medico” che l’avrebbe curato, insistendo a non finire perché lo ricevessi per conoscere meglio la situazione del suo paziente. Ebbi qualche dubbio, perché altre volte sono caduto nel trabocchetto del presunto “amico benefattore”, che in realtà trescava col mendicante. Comunque venne puntuale all’appuntamento.

Memore del consiglio di una “piccola sorella di Gesù”, seguace di Charles De Foucault, la quale un giorno mi disse che anche una piccola offerta è un segno di fraternità, mi precipitai con in tasca una busta con dentro 15 euro che volevo dargli appunto come segno di solidarietà. Lo accolsi nella hall del “don Vecchi”. Era male in arnese e da quella esperienza che mi son fatto, quello era una vita che non lavorava. Lui invece, nel proseguo del discorso affermò che era solamente da tre anni. Mi raccontò che il medico, dottor Rossi, dell’ospedale di Venezia, l’aveva curato e che l’aveva pure aiutato, ma che ora doveva tornare ad Imola per sottoporsi a sedute nella camera iperbarica e, a segno del suo bisogno, mi mostrò il dito mignolo di una mano fasciato alla meno peggio. Gli dissi che pure a Marghera c’è una camera iperbarica e poi mi parve di dover essere onesto dicendogli quello che monsignor Vecchi mi ha insegnato: “Fare la carità è buona cosa, ma è meglio costruire una struttura per chi ha bisogno, perché così risolvi un problema per molti e molti anni, mentre l’elemosina è un tappabuchi che non risolve niente”.

Lui non fu molto convinto di questa tesi. Per non tirarla alla lunga tirai fuori dalla tasca la busta e gli dissi che c’erano dentro i 15 euro in segno di solidarietà. Rifiutò con sdegno; probabilmente puntava al colpo grosso di 50 euro.

Altre volte mi era capitata la stessa cosa, ma il richiedente finiva sempre per rassegnarsi ad un’offerta minore dello sperato. Questo no! Mi disse grazie, seccato, e se ne andò senza accettare nulla.

Nonostante abbia seguito l’esperienza pregressa: – il consiglio di monsignore e quello della “piccola sorella di Gesù” – mi è rimasto nell’animo un magone amaro.

11.09.2014

Io, tu, Dio

Credo che il cardinal Ravasi sia pressappoco il “ministro della cultura” della Chiesa cattolica. Io ho avuto modo di conoscerlo attraverso dei “talloncini” che per anni ha pubblicato sul quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”. In prima pagina, appena sotto il titolo, pubblicava ogni giorno un “pezzo” quanto mai contenuto come numero di righe, ma di straordinaria intensità di pensiero.

So che Ravasi è un sacerdote lombardo, che era il titolare della Biblioteca Ambrosiana e che svolgeva un’intensa attività di ordine culturale. Di questo sacerdote possiedo alcuni volumi regalatimi da amici, che raccolgono i suoi interventi sulla stampa e, tra gli altri, uno che risponde alle obbiezioni e alle problematiche più difficili del cristianesimo e della Chiesa. La sensazione che ho avuto da questa lettura è quella di trovarmi di fronte un uomo di una intelligenza sopraffina e di una cultura vastissima, anzi mi verrebbe da dire illimitata.

Leggendo queste opere, tante volte mi sono chiesto: “Come è mai possibile tanta intelligenza ed altrettanta cultura?”. Per me leggere le opere di Ravasi è sempre stato difficile perché lui vola troppo in alto e faccio fatica a seguirlo; usa dei passaggi assai difficili che mi fanno prendere coscienza della mia inadeguatezza a seguire discorsi tanto impegnativi.

Delle signore del gruppo “I figli in cielo” – mamme che hanno perduto tragicamente figli giovani, – che non so per quale motivo lo conoscevano, mantenevano con lui rapporti tanto familiari da riuscire a portarlo, due o tre anni fa, a celebrare e a fare una lezione sull’aldilà in basilica di San Marco. Queste signore mi hanno riferito che in realtà è un uomo semplice e alla mano.

La Chiesa, prima gli ha offerto questo importante dicastero e poi, un anno fa, gli ha concesso la porpora cardinalizia.

Ravasi poi è stato un collaboratore del cardinal Martini di Milano e con lui ha creato la famosa “Cattedra dei Gentili”, attraverso la quale la Chiesa ha tentato un dialogo positivo con i credenti.

Date queste premesse, qualche giorno fa un mio amico, per la seconda o terza volta, mi ha portato il periodico della Confindustria “Il sole 24 ore”, ove Ravasi pubblica la rubrica “Breviario”. Nell’ultima copia che mi ha portato, sotto il titolo “Io, tu, Dio”, ho letto un trafiletto che riporto integralmente, perché credo che questa tesi di Ravasi sia una tesi che anch’io confusamente ho cercato di mettere a fuoco per tutta la vita e ritengo la “chiave” con cui ho tentato e sto tentando ancora di aprirmi al mistero di Dio.

Oggi lo offro agli amici come “una perla” evangelica di grande valore.

BREVIARIO

Io, tu, Dio

Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre. Mi ha impressionato – a tal punto da rimanermi infissa nella memoria – una battuta del filosofo francese Emmanuel Lévinas: «Io non so chi sono prima di incontrare te». L’altro è lo specchio che ti permette di conoscere il tuo volto perché con te condivide l’umanità, l’anima, la mente, la vita. Ebbene, la considerazione sopra citata fa un passo in avanti e ci invita a scoprire nell’altro anche il volto di Dio. A suggerire questa esperienza è quel visionario che fu William Blake, poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture. La sua intuizione è debitrice di una pagina evangelica nella quale Cristo rivela che il suo viso si cela dietro i profili miseri degli ultimi dei nostri fratelli affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati (Matteo 25,31-46). È nell’amore autentico che incontri il tuo io, l’altro e Dio.

Gianfranco Ravasi

10.09.2014

Essere non avere

Il cieco di Gerico disse a Gesù: «Fa che io veda» e Gesù a lui: «Vedi, la tua fede ti ha salvato!». Sono convinto che ieri il Signore abbia fatto anche a me questo miracolo. Vedere è veramente uno splendido dono di Dio, però quando si vedono cose belle e positive.

Tanti anni fa ho letto un magnifico racconto di André Gide, l’autore che più di altri mi ha fatto capire quanto grande sia il dono della vista. Il racconto è di una estrema delicatezza, ma pure di grandissima efficacia. Un pastore protestante, che é pure medico, visitando i fedeli della sua comunità si accorge di un’adolescente cieca che può essere curata e riavere la vista. La cura e la ragazzina ci vede.

A questo punto Gide diventa veramente insuperabile, facendo sentire al lettore l’ebbrezza infinita con cui questa adolescente scopre l’azzurro del cielo, le danze degli uccelli, il verde del giuncheto e le acque blu del mare. Il lettore pare che riscopra la bellezza del creato, o meglio che la scopra per la prima volta. Anche a me l’altro ieri è capitato di fare questa scoperta inebriante. Specie negli ultimi tempi non ho visto che il marciume di amministratori pubblici, di magistrati e di imprenditori a proposito del Mose. I miei occhi si sono riempiti dello squallore desolante dei nostri senatori, del loro comportamento squallido, dei loro discorsi inconcludenti, tutti tesi a buttare a mare una riforma attesa da quarant’anni, una litigiosità esasperata e faziosa. Questi stessi occhi han dovuto sopportare le manfrine dei sindacati, la lotta senza quartiere di una folla di dipendenti dell’Alitalia decisi a voler mantenere i loro privilegi impossibili, il carrozzone che in questi ultimi anni a causa di imprenditori avidi ed incapaci e di una folla di tre quattromila dipendenti in più che come unico compito avevano quello di percepire i lauti stipendi. (Infatti la nuova compagnia spero che potrà funzionare meglio senza questa inutile e pesante zavorra che ha affondato più volte la nostra compagnia di bandiera).

Su questo sfondo cupo e desolante poter vedere finalmente trentamila giovani scout dai volti freschi e puliti che, seduti per terra, ascoltano gioiosamente Papa Francesco, accolgono in maniera goliardica e scanzonata il giovane capo di governo con il fazzolettone scout al collo, accompagnato da Agnese, la sua giovane sposa, e con i due figlioletti pure scout accanto, sentire il capo di governo, e soprattutto il segretario di quel partito che per sessant’anni occupava le Botteghe Oscure sotto il simbolo della falce e martello, è stato per me un dono immenso.

A tutto questo si è aggiunto l’aver sentito le parole di Renzi, a cui è stata consegnata “la carta del coraggio”: «Siate i giovani che credono all’essere e non all'”avere”, siate non la speranza del domani, ma quella di oggi», è stata pure una delizia per le mie orecchie.

L’aver visto e sentito questi “miracoli” e queste meraviglie ha fatto rifiorire la mia speranza e la mia gratitudine al buon Dio.

09.09.2014

La nostra utopia non è una chimera

Penso che qualche parroco sia un po’ seccato perché questo vecchio “collega” ormai pensionato mette tanto spesso e con tanta decisione il naso non in una delle “cinque piaghe della Chiesa”, come Rosmini prima, e Martini poi, hanno denunciato, ma in qualche altra non meno grave. Mi riferisco al discorso su cui sono tornato innumerevoli volte, ossia la carenza di strutture e di servizi caritativi nelle nostre parrocchie.

Tante volte, con pochissimi risultati, almeno apparenti, ho scritto che la carità, o meglio la solidarietà – come io preferisco dire – è la cenerentola delle preoccupazioni e delle realizzazioni parrocchiali. Talvolta m’è venuto perfino da pensare che certe parrocchie che rifiutano “L’Incontro” lo facciano perché infastidite da queste denunce che il nostro periodico fa spesso a questo proposito e con estrema decisione. La giustificazione più frequente circa la mancanza di servizi sociali nelle parrocchie è addebitata alla carenza di mezzi economici da cui paiono afflitte da sempre certe comunità parrocchiali. A questa obbiezione vorrei ribadire ancora una volta che la carità cristiana non deve ritenersi – a mio umile parere – una passività a livello economico, ma una voce attiva nel bilancio parrocchiale.

Recentemente ho letto su “Gente Veneta” una relazione sulla nuova iniziativa fatta dalla Caritas della diocesi di Venezia con apertura di una mensa e di un dormitorio per i poveri a Marghera. Analizzando quello che c’è scritto sotto le righe dell’articolo, ho concluso che il peso economico che la diocesi deve sobbarcarsi, deve essere consistente e che probabilmente deve provenire dall’otto per mille di cui fruisce.

Scrissi che mi ripromettevo di visitare la nuova struttura, della quale la diocesi pare molto fiera, per accertarmi anche su questo aspetto non irrilevante. La dottrina che supporta tutto il Polo solidale del “don Vecchi”, fa sì che esso sia in attivo sia a livello globale che a livello delle quattro associazioni che lo compongono, più la Fondazione Carpinetum.

Questa dottrina presuppone che nessuno è tanto povero da non avere qualcosa da offrire a chi è più povero di lui. Da ciò nasce che assolutamente nulla viene offerto gratuitamente, ma ad ognuno è richiesto un piccolo contributo “offerta”, che poi viene usata per altri poveri.

Con simile dottrina ognuno deve rendersi conto che nulla piove dal cielo in maniera gratuita; non solamente, ma ognuno deve fare la sua piccola parte, seppur minima, per creare una città solidale il cui benessere diventi frutto dell’impegno di ognuno.

Con questa dottrina non solamente sono nati i cinque Centri “don Vecchi”, che mettono a disposizione degli anziani poveri quasi quattrocentocinquanta alloggi, ma ripeto che ognuna delle quattro associazioni, più la Fondazione, non solamente non pesano su alcuno, ma pure producono un certo reddito.

Alla prova dei fatti la nostra non è una chimera, ma una splendida utopia che, applicata in maniera più vasta, creerebbe una città solidale.

08.09.2014

Formule alternative

Avendo vissuto una vita intera da prete ed essendomi occupato principalmente di cose della religione, sono portato a notare e valutare i fenomeni, anche minimi e banali, che avvengono all’interno della Chiesa e della religione. Ultimamente ho posto la mia attenzione su due fenomeni estremamente marginali che certamente non compromettono assolutamente la fede, ma che a mio parere indicano un cambiamento di tendenza.

Quando è stata aperta la nuova chiesa prefabbricata del cimitero, l’impresa Pedrocco, che lavora i marmi in via Ognissanti, con estrema gentilezza e generosità, mi ha regalato il tabernacolo e l’acquasantiera. Abbiamo collocato l’acquasantiera di marmo rosso di Verona alla porta della chiesa, ma quasi nessuno ormai, entrando, pare intinga più le dita della mano per segnarsi col segno della croce. Talvolta mi dimentico di rimettere l’acqua benedetta, ma nessuno mai si meraviglia o me lo chiede, mentre i miei parrocchiani di un tempo me l’avrebbero fatto osservare come una cosa grave.

Secondo: nella vecchia cappella sono collocate delle ceriere sia elettriche che con ceri di paraffina. Mentre un tempo ogni settimana raccoglievo 15-20 scatole di ceri usati, ora non si raggiunge neanche il dieci per cento di quella quantità.

Mi fermo qui, ma potrei continuare col digiuno del venerdì, con il “perdon d’Assisi”, le veglie, le novene, i primi nove venerdì del mese ed altro ancora.

Mi ripeto che non è minacciata la fede per questi cambiamenti. Vi sono però degli aspetti della vita religiosa molto più importanti che mi pongono dei problemi seri, ai quali penso dovremmo cercare di dare una risposta. Anche per questo voglio fare due esempi. Nei miei trentacinque anni da parroco nella comunità di Carpenedo, parrocchia di antica tradizione, ma ancora viva da un punto di vista religioso, in tempi ormai un po’ lontani celebravo una novantina di matrimoni all’anno. Ora il mio successore, che è un parroco attivo e quanto mai zelante, mi riferisce che ne celebra appena una decina.

Non mi fermo ad analisi e motivazioni che sono complesse, ma concludo che il sacramento del matrimonio, così come era concepito e realizzato, è di certo in crisi.

Vengo ad altro sacramento, quello della confessione. Nel 1956, quando sono arrivato a San Lorenzo e nella ventina di anni che ci sono rimasto, al sabato in due, tre sacerdoti andavamo in chiesa alle tre del pomeriggio e confessavamo fino alle otto. Attorno al confessionale c’erano due code di fedeli che aspettavano il proprio turno anche per un’ora. Per non parlare per Natale e Pasqua.

In questi ultimi anni mi chiamano a confessare in parrocchia per delle celebrazioni comunitarie organizzate tre quattro volte l’anno, ma mai ho confessato per più di un’ora e mezza e più di una quindicina di persone.

Circa questi due sacramenti credo che il problema sia veramente grave e che si debbano trovare soluzioni diverse per raggiungere lo stesso risultato che si raggiungeva nel passato. In proposito avrei qualche idea, ma penso di doverci riflettere in maniera più approfondita. Mi auguro che anche altri ci pensino.

07.09.2014

Bravo Alfano!

Un tempo per far prendere coscienza che ognuno, al di sopra della propria fede, cultura e religione, deve farsi partecipe dei drammi del mondo intero e rendersi parte attiva per risolverli, si diceva che l’uomo deve essere “cittadino del mondo”. Oggi mi pare si sia abbandonata questa locuzione, ma la sostanzia non cambia.

E’ finita l’epoca delle piccole patrie, dell’arroganza nel ritenere il proprio Paese, la propria cultura e la propria religione migliore delle altre, è finito il tempo di appartarsi paghi della pace e del benessere della propria gente. Oggi tutti, o perlomeno gli uomini più aperti, si debbono sentire compartecipi e corresponsabili di tutto quello che avviene nel mondo intero.

Io confesso d’aver assimilato in modo profondo ed assolutamente convinto questa impegnativa, ma magnifica verità. Così come mi fa felice e mi offre entusiasmo e speranza la visione dei trentamila giovani scout che hanno scritto nei prati di San Rossore: “la carta del coraggio” e come mi fanno felice le folle sterminate che tanto frequentemente vanno a sentire la parola buona ed incoraggiante di Papa Francesco, altrettanto mi angosciano le guerre fratricide che oggi insanguinano tanta parte della nostra terra.

Talvolta sono perfino assalito da incubi notturni e da angoscia al pensiero e alla visione di tante rovine e di tanto sangue provocato in tante parti del mondo da uomini dissennati, avidi di potere, fanatici, irresponsabili, che coinvolgono e fanno pagare a creature innocenti il prezzo della loro follia e della loro spietata ferocia.

Pensavo che le mostruosità avvenute durante l’ultima guerra mondiale, che ebbero come truci protagonisti Hitler, Stalin, Mussolini e tutti i satrapi di secondo piano, avessero raggiunto il fondo insuperabile della follia. Invece no! oggi c’è perfino di peggio. Quando penso a quello che avviene in Siria, in Ucraina, a Gaza, in Libia ed ora in Iraq, provo un senso di desolazione, di smarrimento e di impotenza. Negli altri scacchieri c’è almeno qualche pretesto di nazionalismo o di interessi d’ordine economico che non giustificano niente, ma almeno sono compresi nell’avidità e nella sete di potere – antiche magagne dell’uomo – ma ora che si promuova una “guerra santa” (il termine stesso rappresenta una esecranda bestemmia contro Dio), che si pretenda oggi la conversione all’Islam con la forza, che si segnino le case dei cristiani per distruggerle, che si compiano le più grandi nefandezze in nome di Dio, è quanto di più mostruoso si possa immaginare.

Io che ho sempre condannato senza appello le crociate di cinque secoli fa, debbo essere vigile perché dal fondo del cuore sentirei la tentazione di sognare che i paesi cristiani, o solamente civili, promuovessero una crociata contro la barbarie.

Spero almeno che l’esempio di Alfano di espellere su due piedi l’imam di San Donà che predicava l’odio, valga per tutti i musulmani che vivono in Italia e siano espulsi anche se mostrassero solo la minima simpatia per i seguaci del califfo della morte e del’orrore.

06.09.2014

Avvisaglie

Non passa una settimana che da una parte o dall’altra non appaia Cacciari, il sindaco filosofo, a dire la sua. Cacciari, ben s’intende, è un uomo intelligente che non solo sa bene di filosofia, ma mastica bene pure la politica. Ho l’impressione però che gli operatori della carta stampata, della televisione e delle cose che riguardano il nostro bel Paese, lo considerino quasi un santone che sa un po’ di tutto e ha una sentenza per ogni problema.

Cacciari non si nega mai, anzi ho l’impressione che gli piaccia fare il padre nobile un po’ su tutto, ma in particolare su quanto concerne la nostra città. Per me, tutto sommato, è stato uno dei più bravi sindaci di Venezia dal dopoguerra in poi; è stato autorevole, sensibile alle problematiche sociali, bravo comunque a vendere la sua merce. Sarei felice se Venezia riuscisse a trovare un nuovo sindaco almeno come lui, anche se non sarà tanto facile.

Io spero che i politici, squalificati e con poco credito come lo sono attualmente, nemmeno tentino di proporre un primo cittadino cresciuto nelle loro file, ma cerchino altrove un candidato che almeno in partenza abbia un minimo di credibilità.

E’ pur vero che il sindaco dimissionario è stato una creatura di Cacciari e che le cose non sono andate bene anche prima del Mose. Cacciari ha capito che a Venezia sarebbe stato possibile fare un sindaco solo se godeva di un po’ di credito della sinistra e del mondo moderato. Ha fatto la proposta, ha imposto questa persona al PD e c’è riuscito; purtroppo l’incidente di percorso l’ha fatto cadere, comunque è stata un’esperienza poco riuscita perché Orsoni aveva una squadra rissosa e non è riuscito ad imporsi. Forse non aveva sufficiente personalità o mestiere.

Ora, a mio umile parere, non basta più neppure la formula proposta da Cacciari, bisogna che emerga un uomo assolutamente nuovo, non solamente non legato ad un partito, ma apertamente lontano da ognuno di loro, un uomo che abbia i piedi per terra, che abbia forte personalità, che abbia dato prova di saper governare un’azienda e che si sia dimostrato onesto nel suo operare.

Ho letto su “Gente Veneta” che il mondo cattolico sta muovendosi almeno per definire i tratti indispensabili per il nuovo sindaco e che si invita a pregare perché emerga un candidato idoneo. Da parte mia spero tanto che il cosiddetto mondo cattolico si limiti a pregare. D’istinto invece sarei portato a sperare che un imprenditore sano fosse disposto a sacrificare alcuni anni della sua vita per raddrizzare le gambe a Venezia, la vecchia matrona tutta piena di sé, ma ormai inconsistente.

Dicono che s’è fatto avanti uno che voleva comprare l’isoletta di Poveglia; spero tanto che non intenda comperare anche l’arcipelago di isole che compongono Venezia.

04.09.2014

Sdegno e comprensione

Tante volte ho scritto che da ragazzo, un po’ per quanto mi avevano insegnato i miei maestri di vita e un po’ per quello spirito un po’ romantico e di avventura che ho sempre avuto, consideravo le crociate come qualcosa di epico, alimentato da una tensione profondamente religiosa. Col passare degli anni ho scoperto tutte le brutalità, gli interessi e la carenza di contenuto autenticamente religioso che le ha promosse ed attuate.

Mi è parso che l’unica cosa che potevo fare era di rinnegarle radicalmente come fatto religioso e sentire, come cristiano, di dover chiedere perdono all’umanità. Fortunatamente lo spirito delle crociate è definitivamente tramontato nella Chiesa dei nostri giorni. Purtroppo però mi capita oggi, a dieci secoli di distanza, di registrare che il mondo islamico, che non si è agganciato all’evolversi della storia, sta continuando a fare quello che fece nel primo millennio, allora con una certa giustificazione perché era aggredito, ora senza alcun motivo perché è decisamente lui aggressore del cristianesimo e delle falde più moderate e civili dello stesso islamismo.

Quello che i maomettani fondamentalisti con la fondazione del nuovo califfato stanno facendo, è quanto di meno religioso e di meno umano e civile si possa fare. Tanto che se non fossi ben memore dei “peccati” dei quali si è macchiata la Chiesa al tempo delle crociate, d’istinto mi verrebbe da chiedere al Papa di promuovere un duro intervento militare da parte dei “principi cristiani”.

Questo triste evento rende evidente un problema di fondo: che la Chiesa di oggi, soprattutto nei membri più lucidi e intelligenti, finalmente ha capito che la religione non deve mai impugnare le armi, mentre il mondo islamico pare che sia ancora legato al medioevo predicando e promuovendo una religione antistorica, che invece di aiutare l’uomo a crescere e a realizzarsi, lo riduce schiavo di un ritualismo formale e di un proselitismo feroce e sanguinario.

L’importante però, per noi cristiani, è che dagli errori degli islamici impariamo che una religiosità che non comunica col progresso, con l’evoluzione e la civiltà, diventa, come dicevo, puramente formale, antistorica e fatalmente oppressiva per l’uomo.

I cristiani di oggi devono convincersi che l’Incarnazione, ossia il Dio che si rende presente nel cuore e nella ragione dell’uomo, non è un fatto relegato al passato, ma un evento che riguarda gli uomini che vivono oggi, con la loro cultura, la loro sensibilità, le loro problematiche. Infatti Dio oggi usa le vesti, la parola e il pensiero dell’uomo contemporaneo per parlare e salvare sia il singolo che la collettività.

Oggi il “Verbo” nasce nei campi profughi, nelle città bombardate e nella sofferenza dei cittadini dei Paesi in guerra e si riveste, parla come vestono e come parlano gli ultimi e i più abbandonati di questo povero mondo.

Molti cristiani hanno compreso tutto ciò, ma c’è ancora una massa che si porta dietro una religiosità rituale e formale che non “salva” alcuno. Molti cristiani non hanno ancora compreso tutto questo e i musulmani purtroppo ne sono lontani ancora mille miglia e perciò predicano “la guerra santa”.

03.09.2014

I “militi ignoti”

Chi segue “L’Incontro” ha certamente capito i miei limiti, specie a livello culturale. Io sono il primo a rendermene conto. Anche questa mattina ho letto con curiosità la rubrica che il giornalista Gervaso tiene ogni giorno sul Gazzettino e sono stato sorpreso perché ho avvertito che le sue conoscenze sono pressoché illimitate. Egli spazia con estrema disinvoltura nel vasto mondo della letteratura, mentre io sono costretto ad attingere ad un repertorio quanto mai limitato.

Vengo al motivo di questa premessa. Fortunatamente abbastanza di frequente vi sono persone che si complimentano con me per come è tenuta la “cattedrale tra i cipressi”: pavimento pulito, fiori e piante ben curate, ordine assoluto, buon gusto. Altri ancora mi fanno complimenti non solo per i contenuti, ma anche per l’impaginazione de “L’Incontro” e l’assoluta regolarità con cui lo si trova nei punti di distribuzione.

Io, pur con qualche disagio, incasso, senza riuscire a chiarire ogni volta che il merito è mio solamente in misura assai relativa perché, pur nell’ombra, c’è dietro di me un piccolo e meraviglioso esercito silenzioso, ma estremamente efficiente. Spesso, in occasioni come questa, ho citato ancora una volta – perché non spazio come Gervaso – Bertolt Brecht che, a proposito di Cesare che “conquistò la Gallia”, si chiede con ironia: “Ma Cesare non aveva neppure uno stalliere, un cuoco o un barbiere che in qualche modo l’aiutassero in questa portentosa impresa?”

Vorrei, una volta tanto, accennare a qualcuno di questi eroi “senza volto e senza gloria” che sono i veri protagonisti di questa bellissima avventura. Ne cito alcuni a mo’ d’esempio.

Per quanto riguarda la chiesa ci sono due giovani sposi – per me rimarranno giovani ancora per cent’anni – che ogni settimana scopano, lavano, profumano, curano i fiori. Quando li vedo accudire la mia chiesa mi sembrano due “solisti veneti” che manovrano scope e ramazze come dei preziosi “Stradivari”. Suor Teresa poi è l’impareggiabile artista delle confezioni floreali e del repertorio di tovaglie lavorate.

Per quanto riguarda “L’Incontro” l’esercito dei volontari è ancora più numeroso e altrettanto efficiente. A cominciare da Laura che, ogni settimana, passa ore e ore sul computer per sbrogliare la complicata matassa dei miei scritti, per tagliare periodi infiniti, per aggiungere punti, virgole e punti e virgola e inserire il tutto nelle rigide regole della sintassi e della grammatica, con le quali ho poca confidenza.

Non vi sto a parlare del piccolo esercito di tipografi che il lunedì, di buon mattino, sono già al lavoro perché alle dieci e mezza i miei vecchi sono pronti per la piegatura. La macchina che un paio di mesi fa ha dato forfait, ha stampato quattro milioni di copie.

Poi vengono gli strilloni e gli addetti alle messaggerie che riforniscono le sessanta postazioni, persone con tanto di laurea e di licenza magistrale per adempiere a questo compito così “delicato”.

Una volta tanto rendiamo onore con una corona di alloro a questi eroi senza nome.

02.09.2014

Autocritica

Qualche settimana fa ho letto un articoletto di un giovane collega. L’articolo mi ha messo un po’ in crisi. Verteva sulla recente decisione del nostro Patriarca di chiudere il Marcianum. Questa notizia ha avuto una certa ripercussione in città, ma soprattutto nella diocesi di Venezia perché il patriarca Scola s’era giocato pressoché tutto in quella grande impresa che sembrava del tutto riuscita e il patriarca Moraglia si sta pur giocando notevolmente, prima con la chiusura della scuola diocesana ed ora con la chiusura del Marcianum.

Il collega, riferendo questa notizia, loda in maniera sperticata il vecchio Patriarca ed in maniera altrettanto entusiasta il nuovo Patriarca.

Io sono ben lontano dal giudicare queste due eminenti personalità del mondo ecclesiastico, perché me ne mancano gli elementi di giudizio. Molto probabilmente sono ambedue dei santi uomini, però mi vien da pensare, da come sono andate le cose, che probabilmente il primo sia stato un po’ sventato e il secondo almeno un po’ pavido. Non mi riesce proprio di affermare che ambedue siano stati ugualmente saggi, ugualmente prudenti, perché se fosse stato così avrebbero dovuto arrivare ambedue alle stesse conclusioni. Penso che il primo si sia lasciato prendere la mano dall’euforia ed abbia giocato un po’ d’azzardo, e l’altro si sia lasciato prendere un po’ la mano dalla paura ed abbia mollato con troppa facilità. Comunque lascio “ai posteri l’ardua sentenza”.

Ma questo discorso mi pone un problema più grave, che mi coinvolge più fortemente e penso dovrebbe coinvolgere anche gli altri preti e fedeli. Mi pare che sia invalso nella Chiesa il costume un po’ codino di dare giudizi anche alquanto severi sullo Stato, sulla politica e su tutto l’universo mondo, mentre per quello che riguarda le cose della Chiesa si debba dire solamente bene.

Anche in questa occasione mi sono stati di conforto i giudizi non certamente lievi del cardinal Martini sulla Chiesa in genere e in particolare sulla gerarchia ecclesiastica. E poi, prima ancora, Rosmini, con la sua denuncia delle “cinque piaghe della Chiesa”, non è stato di certo più tenero.

Io rimango convinto che chi ama la Chiesa e se ne sente parte integrante deve trovare il coraggio e l’onestà di fare autocritica, quando è giusta. Ritengo ancora che nella misura in cui uno ama la Chiesa, in quella stessa misura deve avere il coraggio di esprimere con pacatezza, onestà e amore, il suo giudizio non solo a cose avvenute, ma anche prima che avvengano, se i responsabili ne danno la possibilità. Papa Francesco mi pare sia maestro a questo riguardo.

01.09.2014

Grano nonostante la zizzania

Nella pagina di diario di lunedì di questa settimana ho sentito il bisogno e il dovere di fare qualche modesta considerazione sulla mala pianta dell’integrismo, che sarebbe tentato di estirpare comunque quello che è ritenuto male e di instaurare uno stato confessionale per il quale il bene, la virtù, e i valori che noi riteniamo naturali e positivi, siano imposti per legge.

Il discorso è partito dalla lettura della parabola che racconta che “il Padre” ha seminato “il grano buono”, ma mentre i servi dormivano l’uomo nemico ha pure seminato la zizzania e quindi, a motivo del loro zelo intempestivo e comunque tardivo, propongono di estirparla.

Nel mio sermone domenicale sono partito con una puntualizzazione sulla quale non mi sono fermato più di tanto, ma su cui voglio tornare perché è molto importante.

Se è vero, com’è vero, che la redenzione non è un fatto del passato, ma in pieno svolgimento – vedi la tesi di Mario Pomiglio contenuta nella sua opera magistrale “Il quinto Evangelo” – vuol dire che tutto l’impianto della parabola riguarda pure il mondo di oggi, il nostro mondo.

Quindi io posso tranquillamente e legittimamente tirare la conclusione che il buon Dio sta spargendo a piene mani anche oggi la buona semente, anche se è purtroppo anche vero che “l’uomo nemico” sta facendo altrettanto e non di notte, ma spudoratamente di giorno, adoperando, con la lucidità e la perfidia dei figli del secolo, la “gramigna”, i mass media. Però pure oggi procede dall’alto la semina senza sosta, da parte di Dio, dei semi del bene. Bisognerebbe, come suggerisce il giornalista cattolico Luigi Accattoli nel suo volume “Fatti di Vangelo”, che fossimo più attenti a scoprire questa semente positiva per nutrire la nostra speranza, per goderne e, semmai, per favorirne la crescita.

E’ ormai da anni che cerco di scoprire questi “semi positivi”. Quando ero parroco ogni settimana ho tentato di indicare nella rubrica “I fioretti del 2000” uno di questi episodi che si possono inserire nel “Quinto Evangelo”, ossia nel Vangelo in cui si raccolgono i germi del bene che il Signore semina con immutata generosità nella nostra società.

Sento il bisogno di indicarvene almeno uno, che ho scoperto appena questa mattina, Un paio di anni fa, durante un “funerale di povertà” al quale han partecipato in fondo alla chiesa tre quattro barboni svogliati e disattenti, c’era pure un bel ragazzone con tanto di barba e capelli neri che, dopo la messa, mi disse che nelle sue uscite notturne per aiutare gli sbandati, aveva conosciuto ed aiutato “il morto”. Mi raccontò quindi la sua esperienza. Due tre amici studenti – lui faceva architettura – e lavoratori, avevano affittato un appartamento a Marghera ed ospitavano, per carità, facendo vita comune, uno o più sbandati per recuperarli ad una vita civile.

Dopo l’incontro, in cui ero rimasto estremamente edificato da questa scelta, non seppi più niente. Questa mattina mi ha telefonato quel ragazzone, che spero si sia nel frattempo laureato, il quale mi chiedeva di potermi incontrare perché desiderava confrontarsi con me per avere un parere su una struttura di accoglienza che la sua minuscola comunità, senza voti e senza regole, sognava di ampliare.

Volete che questa notizia non debba esser inserita nel “Quinto Evangelo” che sta registrando anche oggi l’opera di Dio?

21.08.2014.

Geremia

Ieri la prima lettura della messa era un brano del profeta Geremia. Questo giovane profeta dell’Antico Testamento è uno dei personaggi che maggiormente conosco ed amo e che col tempo mi è diventato un punto di riferimento e di conforto. Qualche volta però, leggendo Geremia, constato i miei limiti in rapporto alla missione che ho avuto la temerarietà di accettare facendomi prete.

Non è che io abbia grande dimestichezza con i profeti dell’Antico Testamento – Isaia, Osea, Eliseo, Elia e i loro oracoli appartengono ad un tipo di cultura e di civiltà che mi rimangono pressoché indecifrabili o comunque non comprensibili con facilità. Geremia l’ho conosciuto attraverso una strada più facilmente percorribile per un occidentale dei nostri tempi: il romanzo. Non so chi mi abbia passato l’opera che me l’ha ha introdotto come non è riuscito a fare il corso pluriennale di biblica, durante la teologia studiata in seminario.

Il romanzo dell’ebreo tedesco Franz Werfell mi ha immerso nel pensiero, nella storia e nella religiosità del popolo ebreo in maniera semplice e immediata: mistero dell’arte! Questo scrittore l’ho già citato recentemente perché egli è pure l’autore de “I quaranta giorni del Mussa Dagh” sulla persecuzione dei turchi nei riguardi degli armeni e per aver scritto anche una splendida “biografia” della veggente dei Pirenei “Bernadette”, quale atto di riconoscenza per essersi potuto salvare dai nazisti durante l’ultima guerra. Nel suo romanzo “Ascoltate la voce”, presenta la vita e la missione profetica di Geremia, questo giovane timido e pauroso di cui s’è servito il Signore per parlare e guidare il “popolo eletto”.

La vita di Geremia è quasi un pretesto per parlare dei grandi eventi che seguono la storia di questo popolo, quali la deportazione a Babilonia. Con un racconto quanto mai interessante questo ebreo tedesco immerge il lettore in quella cultura ed in quella religiosità che hanno sorretto e dato un volto specifico ed unico a questo popolo che nonostante tutto, è riuscito a sopravvivere e a conservare il suo Dna.

Tornando alla prima lettura della messa di ieri mattina, come mi hanno toccato la coscienza: il lamento di Geremia “ahimè, Signore, ecco io non so parlare” e il Signore a dirgli: «Va da coloro che ti manderò ed annunzia quello che io ti ordinerò. Non temerli, io sarò con te». Poi il Signore conclude il dialogo: «Ti mando per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere, per edificare e piantare».

Durante il proseguo della messa non ho fatto che ripetermi che non devo preoccuparmi del mio limite e della mia fragilità, ma soltanto annunciare ciò che il Signore mette nella mia coscienza e di farlo con coraggio e determinazione assoluta.

20.08.2014