I miei prèsidi

Un tempo gli obiettivi della famiglia, della società e della Chiesa, nei riguardi dell’educazione dei ragazzi, erano pressoché gli stessi. Almeno a livello ufficiale si puntava a dare agli alunni una formazione che avesse come fondamento i valori proposti dal messaggio cristiano.

Penso però che, a partire dal sessantotto, il tempo della contestazione più radicale, alla società esistente allora, questa impostazione venne meno rovinosamente e, eccettuato qualche caso di docenti di una certa età e di una personalità ben consolidata, nel migliore dei casi gli insegnanti, quando erano bravi e preparati, si ridussero a passare nozioni, non sentendosi più autorizzati, o non essendo più convinti di avere il diritto di fare una proposta educativa impostata su valori della tradizione del nostro Paese. E credo che la scuola debba ancora rifarsi da quella batosta.

In altri Paesi perlomeno l’educazione si rifà alla carta di fondo che è la Costituzione. Da noi però, nonostante si dica che la nostra è una bella Costituzione, essa rimane una nobile sconosciuta.

La mia vicenda di insegnamento si svolse un po’ prima, un po’ durante e un po’ dopo la contestazione, ma fortunatamente ho incontrato dei presidi con idee chiare e che sapevano tenere con coraggio e saggezza il timone della loro scuola.

Ho cominciato intorno al ’56 ad insegnare al “Volta”, istituto tecnico. Era preside allora un signore che tutti dicevano “fascista”, ma che in realtà era soltanto una persona che credeva ai valori della vita e pretendeva che sia gli alunni che i docenti facessero il loro dovere. Per me fu un uomo serio che guidava con decisione e saggezza la sua scuola.

Un paio di anni dopo fui trasferito alle commerciali per insegnare alle classi superiori. Vi era un preside che gli alunni chiamavano “il gobbo” che si faceva valere con assoluta autorità e che tutti, sia alunni che insegnanti, temevano quanto mai. In realtà con me è stato tanto caro ed ho capito che amava seriamente gli alunni e li difendeva da certi giovani docenti che facevano i tirannelli.

L’esperienza successiva la feci al “Pacinotti”, l’istituto tecnico per periti. Era allora preside l’ing. Zuccante, vero educatore e formatore della gioventù. Ricordo ancora come mi accolse: «Reverendo, la mia scuola più che di un docente di religione ha bisogno di un assistente per crescere in maniera sana i miei ragazzi». Fu quella un’esperienza bellissima della quale ricordo i frutti anche dopo quarant’anni.

L’ultima e più lunga esperienza la feci alle magistrali ed è stata meno entusiasmante perché il preside era più un burocrate che un educatore; procedeva infatti a base di regolamenti.

L’incontro con questi uomini della scuola mi fu molto utile, perché mi fece capire che un educatore deve vivere e passare valori autentici, rifacendosi alla sua coscienza d’uomo piuttosto che ai manuali o ai regolamenti.

Forte di questa esperienza, ho sempre tentato di imitare i migliori tenendo ben forte il timone delle mie navi, non lasciandomi influenzare dalle mode del momento.

05.05.2014

Pane con l’uvetta

Una volta mio fratello, don Roberto, parroco di Chirignago, che per certi aspetti è una “macchietta” come mio padre, ha usato un’espressione un po’ banale per dire che mentre io sono stato fortunato nella mia vita di prete, lui lo è stato meno di me. Per rendere più evidente questa immagine della mia fortuna, ha affermato che io sto sotto una doccia che ha tutti i buchetti aperti, mentre nella sua molti sono otturati e perciò il benessere scende meno abbondante. Come dire che io sono stato fortunato e lo sono ancora perché dai buchetti tutti aperti della mia doccia sono scesi dollari ed euro in sovrabbondanza, mentre dalle sue parti le cose non sono andate allo stesso modo.

A parte l’immagine singolare usata da mio fratello e la sua sottolineatura, è pur vero che io sono stato fortunato nella mia vita oltre ogni dire. Non solo non mi è mancato nulla ma ne ho avuto in sovrappiù. Ad esempio io non mi sono mai dovuto comperare un’automobile, anzi, pur se usate, ho avuto sempre l’imbarazzo della scelta. Potrei continuare a lungo: ho vestiti per vivere altri vent’anni senza acquistarne altri. Di libri da leggere potrei averne per un altro mezzo secolo. Soldi per finanziare le strutture in cui mi sono impegnato non mi sono mai mancati: a tempo debito sono arrivati e anche in sovrabbondanza.

Tante volte devo addirittura andar cauto nell’apprezzare qualcosa, perché c’è sempre chi si preoccupa di farmela avere prontamente. Qualche giorno fa, in occasione di un’espressione che mi è uscita quasi per caso, s’è innescato un meccanismo veramente sorprendente. Erano arrivati i generi alimentari della Cadoro e tra questi c’era del pane con l’uvetta. Era dal tempo delle medie, quando nell’intervallo tra le lezioni si poteva acquistare il panino con l’uvetta, che non mi era più capitato di vedere questo tipo di pane. La mia sorpresa è stata interpretata dai volontari come una mia passione per il pane con l’uvetta e quindi non passa giorno che non mi facciano avere qualche panino, tanto che un giorno della settimana scorsa ho potuto donarne una settantina, anche se un po’ vecchiotti, ai commensali del Seniorestaurant.

Questo episodio mi ha reso ancor più cosciente di quanto debba benedire e ringraziare il Signore per tutto quello che mi ha dato in abbondanza e soprattutto delle splendide e meravigliose creature che mi ha messo accanto in tutte le stagioni della mia vita.

Il pane con l’uvetta che mi hanno regalato è quello scaduto che i supermercati non possono più vendere e che la gente si guarda bene dal mangiare, mentre io lo prendo volentieri anche un mese dopo. Allora una volta ancora m’è venuto da concludere: “come può stare in piedi la nostra Italietta se abbiamo tecnici e governanti tanto poco saggi da prescrivere di buttare il giorno dopo questo ben di Dio, e dei concittadini così balordi da ascoltare persone così dissennate e sperperone?” Mi riconfermo nel pensare che il buon senso vale molto di più delle leggi stesse e a questo dobbiamo attenerci.

04.05.2014

Marco e Francesco

L’altro ieri ho letto che il consenso a Renzi sfiora il settanta per cento. Sono molto contento perché finalmente Cincinnato ha trovato almeno un discepolo, cosa non facile nel nostro tempo.

Il nostro nuovo Presidente del Consiglio non ha fatto il discorso compassato dell’antico romano: “O mi accettate così, altrimenti torno a fare il contadino e vorrà dire che se Roma riterrà di avere bisogno di uno come me, mi troverà al lavoro nei miei campi”. Il Matteo, fiorentino fino al midollo, ha fatto un ragionamento più scanzonato: “O la va o la spacca!”. La sostanza però è sempre la stessa!.

Sono contento perché, seppur ora si tratta soltanto di qualche mosca bianca, pare che nel nostro Paese finalmente compaia qualcuno che si mette tutto in gioco.

Papa Francesco, da quanto ho letto, supera presso i Veneti il 90 per cento di consensi; mi pare che lui la pensi alla stessa maniera. La sua rivoluzione è una delle più radicali e di più rapida esecuzione. Pure Papa Francesco è uno che punta al sodo, che non si fa imbrigliare dal perbenismo ossequioso e inconcludente e che si sta giocando totalmente sull’obiettivo di una Chiesa povera per i poveri e soprattutto su una Chiesa di stampo evangelico senza mediazione e gradualità di sorta.

L’ultima di questo pontefice che non cessa di sorprendere, è la telefonata a Marco Pannella, il più anticlericale degli anticlericali esistenti non solo in Italia ma nel mondo intero. Il fatto che poi sia stata la Bonino a chiedere questa telefonata – almeno da quanto affermano i giornali – mi fa ancora più tenerezza e soprattutto mi fa capire che quando gli obiettivi sono veri, su di essi finiscono per convergere le persone oneste e sensibili alle istanze dei deboli.

Bella la testimonianza di Pannella! Che si batte da una vita perché le carceri siano più umane, ma soprattutto perché tendano realmente al recupero umano e sociale dei detenuti, mentre i politici piuttosto di affrontare e risolvere i problemi del Paese, sembrano totalmente impegnati a trovar motivi per far prevalere la loro parte e a conservare ulteriormente la propria sedia.

«Le sono accanto, l’aiuterò con la mia parola e la mia preghiera», promette Francesco. «Berrò un caffè in suo onore», ribatte il leader radicale. Una volta ancora si capisce che quando le persone sono oneste e gli obiettivi sono validi, si trova sempre un’intesa, mentre quando non c’è onestà di fondo e motivazioni valide tutto diventa pretesto per litigare e dividersi.

03.05.2014

Le parole e i fatti

Io il cardinal Bertone, già segretario di Stato di Papa Benedetto e messo in pensione da Papa Francesco, non lo conosco affatto e per quanto ne so può essere un santo prelato. O meglio, un paio di anni fa, quando si fece un gran parlare del “corvo” nascosto in Vaticano e qualcuno arrivò a sospettare che avesse qualche collegamento con il grande prelato, lessi una lunga intervista che questo cardinale rilasciò a “Famiglia Cristiana”. A dire la verità rimasi un po’ deluso perché nelle due tre pagine di affermazioni di fedeltà alla Chiesa e al Pontefice, non emergeva una posizione chiara e convincente.

In seguito ogni tanto mi è capitato di leggere pure qualche insinuazione dei soliti laici, però le ritenni sempre pettegolezzi e cattiverie. Sennonché, prima su un giornale di solito serio lessi che il cardinal Bertone si era ritirato in una suite di 800 metri quadri (ancora una volta pensai ad una delle tante malignità). Poi, qualche giorno fa, un lettore che spesso mi manda delle email sugli argomenti più disparati con critiche talvolta benevole e talora amare, me ne ha mandata una in cui dice che un prelato indignato ha affermato a radio 24 che quel cardinale si è accontentato, per trascorrere la sua vita di pensionato, di un immobile di 700 metri quadrati, 600 di appartamento e 100 di terrazza.

Il lettore mi ha domandato che cosa ne penso di questa vicenda. Queste notizie toccano un mio nervo che da una vita rimane scoperto. Spero che ci sia ancora qualcuno che ricordi che chiesi pubblicamente al vescovo Luciani di fare il suo ingresso a Venezia in “600” e al vescovo Olivotti di liberarsi della Mercedes. A quei tempi ricevetti dei richiami ufficiali, ora però che lo stesso pontefice abita in un appartamento poco più grande del mio, che è di 49 metri quadrati, e che in poco tempo ha chiesto ai preti di non usare auto di lusso, credo di non correre più questo pericolo perché sento ben coperte le mie spalle, seppure alla fine della mia vita e dopo tanti anni di solitudine.

La pedofilia dei preti recentemente ha recato infiniti guai alla nostra Chiesa, però la ricchezza, o perlomeno l’agiatezza di un certo clero, è un’altra piaga. All’infuori di Papa Francesco che non solo ha scelto il nome del Poverello di Assisi innamorato di Madonna povertà, ma pure coi fatti l’ha seguito fedelmente, mi pare che vi sia ancora troppa indulgenza da parte del Popolo di Dio nei riguardi di questa piaga.

La storia della Chiesa per fortuna è quanto mai ricca di preti e vescovi dalla vita sobria, però credo che la vergogna di una vita agiata e più che confortevole sia ancora presente, prova ne sia che gli appartamentini del “don Vecchi” destinati ai preti vecchi, per un motivo o per l’altro sarebbero ancora tutti sfitti se non li avessi destinati ad altri anziani.

02.05.2014

“Ti voglio bene!”

Sono ben conscio che qualcuno può reputare fatuo l’argomento che sono sollecitato ad affrontare partendo da una cara e nobile tradizione veneziana.

Per San Marco anche quest’anno si è ripetuto il bel gesto di offrire una rosa alla propria donna, che non necessariamente deve essere la fidanzata, la moglie o l’amica, ma che possono essere, come nel caso mio, le suore che mi aiutano, o le donne dell’est che da anni sono lontane dal marito, dai figli e dalla loro terra e non si sentono ripetere “brava!”, “ti voglio bene” o “ti sono riconoscente”, oppure una creatura che pur ha nel petto un cuore di donna assetato di tenerezza, ma che non può sognare l’amore secondo gli schemi comuni.

Il mattino della festa di San Marco sono andato dal fiorista per acquistare otto rose rosse col gambo lungo per offrirle come segno di affetto e di riconoscenza a donne che vivono con me nel piccolo borgo del “don Vecchi”. Se però avessi potuto seguire l’impulso del mio cuore ne avrei acquistate cento di rose rosse per donarle a quelle creature che per San Marco non hanno nessuno a porre loro in mano una rosa rossa con un sorriso guardandole negli occhi.

Questo gesto gentile non lo reputo affatto romantico, ottocentesco o sentimentalismo dolciastro, ma segno di autentica virilità. A me capita assai di frequente, facendo il prete in cimitero, che in maniera più o meno esplicita mi si chieda di dire a chi sta partendo per il Cielo le parole care e belle che altri avrebbero dovuto dire e che pur avevano una vita per poterle dire. Quante volte non mi son chiesto perché le belle composizioni di fiori, le espressioni variegate dell’amore non si manifestano nei tempi propizi, per non rimpiangere poi di non averle dette o per dirle a tempo scaduto.

Il buon Dio ha riempito il cuore di ogni creatura del sentimento dell’amore che è il fiore più bello, più importante e più gradito, mentre tantissimi uomini lo seppelliscono dentro il proprio cuore e lo coprono con una lapide cupa e pesante, quando invece esso è destinato a rendere bella e sorridente la vita.

A questo proposito conservo nella memoria due testimonianze apparentemente opposte, ma che invece esprimono lo stesso bisogno e lo stesso dovere.

Molti anni fa un omone con due baffi alla Guareschi mi fece questa confidenza, mentre i suoi occhi faticavano a trattenere le lacrime: «Io amo con tutto il mio cuore mia moglie, ma in cinquant’anni di matrimonio non sono riuscito mai una volta a dirglielo». E un’altra volta, più di recente, avendo letto un articolo di una cara collaboratrice, nel quale suggeriva ai lettori di dire di frequente alle persone con le quali si vive, “ti voglio bene”, perché ciò rende più facile e più lieve la vita, incontrandola, tra il serio e il faceto, le dissi la frase che lei suggeriva con tanto calore. Dapprima rimase perplessa, poi ci mettemmo a ridere divertiti ambedue. L’amore è un fiore che deve sbocciare e quando nasce da cuori sereni, fa sempre bene!

01.05.2014

San Marco e i Veneti

Da una ventina di anni pare che il Veneto stia recuperando la consapevolezza di essere un popolo con una storia illustre, con una cultura quanto mai significativa, con un patrimonio artistico inestimabile e con delle tradizioni che vanno riscoperte perché belle e intonate alla sensibilità della nostra gente.

Onestamente credo che gli interventi della Lega, che pur per molti aspetti si è dimostrata rozza, spesso egoista e sprezzante di altre regioni, tutto sommato, e forse nonostante tutto, sono riusciti a ridestare la consapevolezza della nostra identità ed hanno liberato questa coscienza da discorsi formali, sclerotici e pieni di una retorica inconcludente.

In questi ultimi anni poi, i cosiddetti “venetisti” han ribadito ed approfondito queste tensioni e anche se con qualche manifestazione velleitaria, farsesca e teatrale, hanno rattizzato questi sentimenti che rimanevano languenti sotto la cenere di mille problemi di sopravvivenza.

La trovata del referendum on-line, con quel risultato plebiscitario, per molti motivi sorprendente, mi pare abbia denunciato il bisogno del recupero del meglio della civiltà dei Veneti, che ha come punto di riferimento naturale Venezia, l’incantevole perla della laguna e della “Serenissima Repubblica”, come modello di buon governo, di efficienza amministrativa e soprattutto di capacità di produrre ricchezza.

Non mi voglio però addentrare in questo discorso su cui sono poco aggiornato e di cui non condivido appieno le tesi dei movimenti locali di ordine separatista e, peggio ancora, di marcato egoismo nei confronti di regioni meno evolute culturalmente e meno abituate all’impegno, alla legalità e all’autonomia amministrativa. Io sono, a scanso di ogni equivoco, favorevole a forme di autonomia, ma caratterizzate da una forte valenza solidale. Non mi dispiacerebbe se ogni città, e perfino ogni piccolo borgo, curasse il suo volto specifico, amasse e potenziasse la propria cultura e le proprie tradizioni, senza tuttavia mettere in discussione la solidarietà nei riguardi di altri gruppi sociali.

Per me è tempo che ognuno innalzi sui pennoni delle piazze del suo paese la bandiera che ama, coltivi le proprie tradizioni, metta in luce la propria cultura, però rispetti gli altri e collabori con loro per il benessere e la dignità di tutti.

In occasione della festa di San Marco ho avvertito quest’anno più che mai l’urgenza e il bisogno di fare il punto su queste problematiche per non arrischiare di ubriacarmi di sogni impossibili o di non prendere coscienza di questa istanza all’autonomia che dalla richiesta di pochi storicamente nostalgici della gloria del passato, sta salendo alla coscienza di molti fra la nostra gente.

30.04.2014

“Madonna dI rosa”

Questi giorni di primavera favoriscono alquanto una iniziativa che da anni una piccola ma generosa ed intelligente équipe di amici del Centro don Vecchi ha posto in atto e sta perfezionando nel tempo. La denominazione dell’iniziativa riassume assai bene le finalità che essa persegue: “minigite- pellegrinaggio”.

La proposta, concentrata in un tempo molto limitato, persegue almeno tre obiettivi diversi tra loro, ma che si coniugano assai bene per raggiungere una forma di umanesimo integrale, anche se a livelli abbastanza elementari.

Essa offre:

  1. un’occasione di aggregazione sociale e di fraterno rapporto;
  2. la possibilità di scoprire le realtà di ordine naturale, sociale ed artistico del nostro territorio;
  3. un approfondimento di carattere spirituale di un qualche aspetto specifico della nostra lettura cristiana della vita.

Questi obiettivi, che a livello teorico possono sembrare eccessivamente pretenziosi, abbiamo tentato di tradurli in un’esperienza esistenziale quanto mai semplice e gradevole. Cercato un borgo con una chiesa relativamente significativa e preso contatto con i relativi responsabili, si chiede loro la fruibilità della chiesa e di un salone attiguo. Si prosegue, per tempo, con un annuncio dell’uscita. Partenza in autobus nel primissimo pomeriggio, celebrazione liturgica particolarmente curata e tesa a mettere in luce una verità cristiana che illumini un aspetto reale della nostra vita, celebrazione con presentazione dell’argomento trattato, canti appropriati, quanto mai incisivi sull’argomento prescelto, ed approfondimento mediante una serie di preghiere dei fedeli. Normalmente il rettore della chiesa ne illustra la storia e accenna a come essa si innesti nel territorio e nella sua sensibilità religiosa.

Al momento specificamente spirituale segue una bella e abbondante merenda, con panini imbottiti, vino e bevande a volontà, merenda che quasi sempre si conclude con canti popolari spontanei, quindi una passeggiata turistica nella piazza principale del borgo o di una delle tantissime cittadine del nostro Veneto.

Il fatto poi che l’uscita costi solamente 10 euro, tutto compreso, facilita alquanto le adesioni sempre numerosissime.

L’ultima uscita dell’altro ieri ha avuto come meta San Vito al Tagliamento con il relativo santuario della “Madonna di Rosa”, con 115 partecipanti.

L’eucaristia è risultata quanto mai intensa di spiritualità e aveva come tema: “Prendere coscienza della nostra ricchezza umana”. La merenda è stata piacevolissima e soddisfacente, il giro nella piazza di una bellezza particolare per i suoi palazzi medioevali ben conservati, per la roggia di acque limpide che l’attraversa e per essersi potuti abbandonare sulle sedie fuori dal bar come turisti di lusso. L’entusiasmo ha raggiunto le stelle e la richiesta a gran voce è stata di ripetere presto l’iniziativa in un’altra località.

Mi sono dilungato a descrivere questo evento per proporlo alle parrocchie come soluzione che con poca fatica e meno soldi dà una risposta alle attese globali della persona.

Confesso che a mio parere il risultato di un ritiro spirituale, spesso sopportato e con poche presenze, è di molto inferiore ad una di queste gite-pellegrinaggio che arricchiscono tutta la persona e passano senza fatica, anzi con molto gradimento, valori quanto mai importanti.

29.04.2014

Una brutta notizia

Un paio di giorni fa ho letto sul Gazzettino una notizia che mi aspettavo prima o poi, ma che comunque mi è giunta amara: monsignor Fausto Bonini, parroco del duomo di Mestre, lascia la parrocchia per limiti di età.

Il solito Alvise Sperandio normalmente informa con qualche giorno di anticipo notizie sul mondo ecclesiastico che probabilmente qualcuno della curia gli passa puntualmente. Il giornalista del Gazzettino non solo dà questa notizia, ma informa pure sui probabili aspiranti a condurre la più grande e più significativa comunità cristiana della nostra città.

Quando monsignor Bonini giunse a San Lorenzo, almeno a livello formale aveva qualche compito, se non di direzione o coordinamento, almeno di rappresentanza della Chiesa mestrina verso i responsabili della città civile. Non so se don Fausto ogni volta che è intervenuto in questo settore l’abbia fatto in forza del mandato ricevuto o per iniziativa personale, comunque tutti abbiamo avuto modo di avvertire che ogni volta che il parroco del duomo ha preso posizione su qualche argomento di interesse comunitario, la reazione della città e quella dei suoi rappresentanti s’è fatta immediatamente sentire accusando sempre “il colpo”. Questo suo modo di intervenire ha creato dunque in passato un grave problema, benché sia convinto che una città abbia bisogno di avere anche a livello religioso chi la esprima, ed è indubbio che le due città, Mestre e Venezia sono qualcosa di decisamente diverso con problematiche diverse.

Quello che invece mi preoccupa particolarmente è che dal prossimo giugno verrà a mancare il punto di riferimento più avanzato della pastorale nella nostra città post industriale. Don Fausto ha indubbiamente posto in atto un progetto pastorale di tutto rilievo che a tutti i livelli rappresenta a Mestre il punto più avanzato della testimonianza di una comunità cristiana in città.

Il sonnecchiare delle parrocchie mestrine ebbe, nella comunità del duomo, non solamente un modello avanzato di pastorale, ma anche un pungolo che poteva almeno turbare la coscienza di chi ha meno fantasia e spirito di ricerca per aprire varchi sulla nostra società in rapidissima evoluzione.

Alvise Sperandio, assai esperto e molto tempestivo nel raccogliere gli umori e i presunti orientamenti della curia, ha pure fornito una triade di nomi di possibili aspiranti o di probabili successori di don Bonini. Se le cose stanno come le prospetta il giornalista del Gazzettino, a mio parere c’è almeno un nome di uno di questi tre che ha le qualità per portare avanti il progetto pastorale di don Fausto. Dato che nella Chiesa non è entrata ancora la prassi, come era nella Chiesa antica, di consultare il popolo di Dio per queste scelte, non mi resta che pregare perché Mestre abbia almeno un parroco autorevole ad esprimere la Chiesa della nostra città e per fare da mosca cocchiera.

24.04.2014

Il mondo corre veloce

Talvolta mi chiedo perché mi angustio e mi arrovello per immaginare quale tipo di pastorale sia valida ed efficace per il tempo e la società dei nostri giorni. Avendo 85 anni dovrei mettermi l’animo in pace e godermi il vespero della vita lasciando che i giovani preti studino e scoprano il modo di offrire e di far accettare il più facilmente possibile la proposta cristiana. Purtroppo non ci riesco a stare alla finestra e a non lasciarmi trascinare dentro la mischia e, perlomeno a livello di coscienza, avverto l’urgenza e l’assoluta necessità di provare a proporre di adeguare la nostra pastorale ai tempi nuovi.

Credo che sia ormai un dato certo che l’evoluzione della mentalità degli uomini del nostro tempo è assolutamente accelerata. Le mutazioni che un tempo avvenivano in un secolo ora avvengono in pochissimi anni. Quando mi occupavo di Radiocarpini i miei collaboratori più giovani mi sollecitavano continuamente perché comprassi strumenti tecnicamente più aggiornati e quando dicevo loro che i computer avevano solamente tre anni e quindi erano praticamente nuovi, loro mi facevano osservare che quegli strumenti erano arcaici, roba da museo! Adesso capisco che non avevano tutti i torti.

Una ventina di anni fa mi capitò di leggere un volume che riferiva i dati di una visita pastorale fatta dal Patriarca Luigi Flangini alle parrocchie di Venezia alla fine del `700. Fui stupito dai dati e dalle notizie. Ad esempio il Patriarca ammoniva i preti di fare l’omelia alla domenica, perché tantissimi non erano soliti farla. Appresi ancora che San Luca, che oggi è una delle parrocchie più piccole della città, aveva a quel tempo 12 preti, ma altre parrocchie ne avevano anche di più. Oppure i parroci riferivano che in parrocchia c’erano perfino 5 o 6 parrocchiani che non facevano la comunione a Pasqua.

In questi giorni mi è capitato di leggere sulla rivista “Impegno”, edita dalla Fondazione Mazzolari, la relazione della visita pastorale che il vescovo di Cremona fece nel 1941 a Bozzolo, paese in cui era parroco il famoso don Primo Mazzolari, relazione in cui è scritto che in quella comunità di 4208 anime c’erano solamente due abitanti non cattolici, che tutti i bambini erano battezzati, che i matrimoni concordatari erano 1052, mentre i matrimoni civili soltanto 4. Che non c’era stato neppure un funerale civile, che dei 62 morti soltanto 7 erano deceduti senza sacramenti perché morti improvvisamente, che a Pasqua si comunicavano 600 uomini e 1600 donne. Che oltre che nelle messe festive si predicava per la novena dell’Immacolata, la novena di Natale, quella di san Pietro, quella dei morti, mese di maggio…

Se si confrontano questi dati di settant’anni fa con la situazione attuale, ci si rende immediatamente conto di come sia cambiata la vita religiosa nelle nostre parrocchie. Credo ad esempio che oggi le confessioni per giovani e adulti si possano contare a decine anche in parrocchie di cinque-seimila abitanti, ed anche per i bambini ora si tengano quelle due tre volte all’anno quando sono organizzate.

In questi ultimi anni si è fatto un gran parlare di nuova evangelizzazione e qui nel Veneto s’è parlato ancor di più nel Sinodo di Aquileia, però non mi pare che si sia andati molto più in là del parlare.

Per quanto mi riguarda, pur non avendo soluzioni da suggerire, mi pare di dover comunque denunciare la mancanza di un grosso sforzo per trovare soluzioni aggiornate e concrete per passare il messaggio cristiano agli uomini del nostro tempo.

20.04.2014

Attenti ai ladri!

Se un prete non tenta di vivere intensamente almeno la settimana santa, che prete è? Questa settimana, pur in un clima di aridità spirituale, ho tentato di recuperare il significato e il valore prezioso della Pasqua seguendo le orme di Papa Francesco, vero maestro di vita e di fede.

Chi mi conosce un po’ sa che non riuscivo in passato neppure a nascondere il mio disagio e la mia noia per certi pistolotti interminabili, scontati e poco mordenti di certi nostri grandi prelati. Il Papa attuale invece è sempre nuovo, sempre sorprendente e soprattutto sempre capace di donare frasi che sembrano perle preziose.

Spesso mi domando: “Ma dove li va a trovare Papa Francesco dei pensieri così sublimi e così convincenti?”. A me di questo Papa piace soprattutto il modo di parlare, perché rende ancora più incisivo e convincente il suo pensiero col tono della voce, con la pausa, con lo sguardo.

Quando legge una sua qualche omelia mi entusiasmano certi suoi passaggi e la concretezza delle sue argomentazioni, però quando l’ascolto – e noi oggi abbiamo non solo la fortuna di ascoltare le sue parole, ma di vedere anche il suo volto e la sua mimica – è veramente insuperabile. Mai una frase, un pensiero, sono scontati, da repertorio, ma sempre pare che escano dal suo cuore come da una sorgente viva e fresca, senza mediazioni di sorta. Le parole del Papa talvolta le sento come delle dolcissime carezze paterne, e tal’altra sembrano chiodi che penetrano a fondo anche se incontrano la roccia più dura.

Poco tempo fa m’è parso che abbia manifestato una preoccupazione angosciata quando disse: «Non lasciatevi rubare la speranza!» Mai come in quell’occasione ho preso coscienza di aver ricevuto un dono – di certo non per mio merito – un patrimonio di valori, di ideali, un messaggio così importante ed una proposta così vantaggiosa, però ho capito anche che custodisco tutto ciò in un “vaso di argilla” e perciò corro il terribile pericolo che mi sia rubato da gente, da ladri prezzolati, da mascalzoni pieni di supponenza che non hanno più nulla da perdere e perciò hanno la volontà sadica di profanare, di sporcare e di spegnere le luci che danno senso e perché alla vita.

Come mi tocca e mi mette in guardia il monito e la preoccupazione di Papa Francesco: “Non lasciatevi rubare la speranza!” (se ciò avvenisse diventereste dei miserabili in balia degli eventi).

L’altro ieri poi ho colto un’altra perla preziosa per la quale sarebbe giusto “vender tutto” per acquisire questo tesoro: “Rifiutate il pane sporco!”. Quanti menarrosti, quanti vendivento, quanti imbonitori e furbastri sono disposti ad “offrire pane sporco” per raggiungere fini loschi ed interessati?

Ogni tempo ha i suoi guai, però il buon Dio in ogni tempo, per fortuna, ci manda i maestri giusti; basta ascoltarli e seguirli!

19.04.2014

Il crocifisso e i crocifissi

Quest’anno ho ascoltato con particolare attenzione e condivisione le parole di quel grande francescano che è padre Cantalamessa. Questo fraticello, discepolo del Poverello d’Assisi, è un uomo di grande pietà e intelligenza, ma soprattutto ha il carisma e la capacità di trasmettere la Verità e coinvolgere gli spettatori con pensieri ed idee quanto mai incisive.

Per la Passione ha aiutato i fedeli a scoprire ed essere partecipi del mistero della croce, indicando una per una le categorie degli attuali crocifissi, delle persone e delle parti sociali del nostro mondo che attualmente sono inchiodate a croci dolorose e sanguinanti ed agonizzano spesso tra l’indifferenza di una società tutta ripiegata su se stessa e preoccupata di difendere il proprio benessere e i propri princìpi.

Quanta tristezza ho provato nel sentire soprattutto i magistrati, che notoriamente sono una categoria di persone ben pagate e soprattutto sono uomini delegati ad amministrare la giustizia – una delle missioni più sacre – che si sono lagnati per una decurtazione pressoché insignificante del loro stipendio, che è almeno, molte volte, superiore a quello con cui deve vivere un operaio. E soprattutto quanto mi ha fatto male il motivo pretestuoso della loro lagnanza.

Tornando al crocifisso di oggi mi sono ricordato di un pensiero del vescovo di Nuova York, mons. Fulton Sin: “Il venerdì santo sono sceso in strada ed ho visto il Cristo in croce, mi sono commosso e ho tentato di staccarlo, ma Egli si è rifiutato dicendomi: «Non scenderò finché non staccherete dalle loro croci il numero infinito di uomini che oggi patiscono su questo patibilo!»”.

Quest’anno io mi sono girato attorno per vedere se anche vicino a me c’è qualcuno che posso far scendere dalla croce. Si è presentata immediatamente ai miei occhi una anziana mamma che alcuni giorni fa ho visitato là, nella stanza linda e luminosa dell’Ospedale all’Angelo, ricoverata per un tumore al pancreas. Vive sola con un figliolo in difficoltà per una grave menomazione agli occhi. Fino all’altro ieri vivevano in un fragile equilibrio uno per l’altra, ora sono tutt’e due in croce, lei per il figlio che vive del respiro di sua madre e lui che al mondo l’unica cosa che possiede è sua madre.

Mai come in questi giorni ho sentito, sofferto e condiviso questa crocifissione che fa sanguinare i loro cuori, ma anche il mio.

Quante volte in questi giorni le mie labbra hanno ripetuto d’istinto: “Padre, se è possibile, passi questo calice!”, però mi sono sempre fermato lì; pensando a queste creature a cui voglio veramente bene, non ho avuto il coraggio di terminare la frase di Gesù!.

18.04.2014

Pasqua di “passione”

E’ vero che di Papi ce n’è uno solo e perciò è comprensibile che non tutti i suoi sacerdoti abbiano le sue stesse risorse. Faccio spesso tanta fatica e mi sento talvolta spompato, poco motivato e soprattutto privo di quella grinta e di quell’entusiasmo che immagino un prete, seppur vecchio, dovrebbe avere, o meglio, gli sarebbero necessari per compiere la sua missione.

Nei momenti liberi di questa settimana santa ho colto talvolta l’opportunità di seguire i santi riti del triduo pasquale celebrato dal Santo Pontefice. Ho visto la sua stanchezza, specie per la lavanda dei piedi, l’ho visto veramente affaticato e malconcio, però sempre ho notato convinzione, profonda pietà, parole lucide e convincenti, ho sentito un pastore zelante e motivato. Mentre io, vivendo tra i vecchi, celebrando liturgie meno ricche di cornici, di atmosfere intense create dalle folle e dagli edifici ricchi di storia e di arte, mi sono sentito povero, con pensieri logori e consunti, ma soprattutto privo di quelle sante emozioni che ho provato non solo da bambino nella mia vecchia chiesa, ma pure da giovane prete, ai Gesuati prima, e a San Lorenzo poi, così anche da parroco maturo a Carpenedo.

Quest’anno ho rimpianto quanto mai i lumi, i canti, i bambini col loro entusiasmo e la loro fede fresca e sorridente, i gruppi giovanili e tutte quelle atmosfere spirituali che cambiavano tono e respiro ogni giorno della settimana santa. Mi sono chiesto più volte, con una certa angoscia, specie quando ho registrato alla televisione o nei giornali un clima sempre più laico e secolarizzato della nostra società, se “si sta spegnendo pian piano la mia fede”?

Ogni stagione della vita ti fa affrontare l’incognito, sensazioni e stati d’animo prima mai sperimentati; perciò mi son chiesto: “E’ questo il clima spirituale della quarta età in cui mi sono già inoltrato, oppure sto subendo una crisi a livello spirituale?

Mentre mi sono trovato in questo stato d’animo mi è venuta in mente la confidenza lontana nel tempo di un’anziana parrocchiana, intelligente e cristiana convinta: «Sapesse, don Armando, quanto è dura quando gli ideali non brillano più!»

Quest’anno ho vissuto appieno, della Pasqua, soprattutto “la passione”, mentre mi pareva di aver bisogno soprattutto della Resurrezione. Spero che almeno la mia “passione” salvi me e chi mi sta accanto.

17.04.2014

Il racconto di Buzzati

Sperequazioni ce ne sono state in ogni tempo. Quando pensi agli splendidi palazzi di Venezia, alle chiese meravigliose, alle ville venete, verrebbe da concludere che quei tempi sono stati tempi di una ricchezza particolare, mentre poi vieni a sapere che chi li ha costruiti, i maestri d’arte, erano pagati miseramente: si e no potevano mangiare e mangiare da poveri, mentre patrizi e mercanti si potevano permettere lusso e servitù a volontà.

Oggi purtroppo niente è cambiato sotto il sole. Forse oggi, a differenza del passato, i mass media informano con dovizia di particolari sul lusso, sulle rendite d’oro e sugli sperperi di ogni genere, dai generi alimentari ai viaggi, ai ristoranti di lusso, dalle automobili agli abiti dai costi iperbolici. Ed oggi, come per il passato, è sempre la povera gente a dover pagare lo sperpero dei ricchi.

Fino a qualche anno fa avevo sognato e sperato che le sospirate riforme avrebbero riordinato un po’ questo mondo. Qualcosa in verità è stato fatto, ma ancora poco, troppo poco. Ora temo che dovrò aspettare la giustizia del “Giudizio finale”.

Dello sperpero da ricchi ho sentito parlare e ne sono cosciente da sempre e in tutti i campi, non ultimo quello alimentare che mi indigna quanto mai, però non avevo mai preso coscienza che c’è pure un altro tipo di sperpero: quello in cui sono coinvolti anche i poveri. Pure i poveri possono e sono spesso sperperoni! Mi ha aperto gli occhi su questo versante un racconto di Dino Buzzati che ho letto recentemente e che subito ho pubblicato su “L’Incontro”.

La prosa di Buzzati non è solo piacevole, ma pure avvincente; egli colora le immagini del racconto così da renderlo vivo e capace di coinvolgere il lettore rendendolo intensamente partecipe del messaggio esistenziale che contiene.

Riassumo in due righe quanto Buzzati denuncia in maniera veramente magistrale.

Un signore nota che un camion versa ogni giorno degli scatoloni di diversa grandezza in una enorme discarica. Incuriosito, domanda al trasportatore che cosa contengano quegli scatoloni sigillati che ogni giorno smaltisce in quel luogo. L’autista confida che alcuni, i più piccoli, contengono le ore che il buon Dio ha regalato ai singoli cittadini e che loro non hanno adoperato, cosicché, ancora “vergini”, vengono buttati al macero perché ormai “scaduti” e quindi inutilizzabili. Gli scatoloni più grandi contengono i giorni perduti; gli altri, di dimensioni superiori, i mesi e i più grandi in assoluto, contengono gli anni perduti: una ricchezza tanto preziosa e di prezzo inestimabile, buttata in discarica perché ormai inservibile.

Anche i più poveri posseggono una ricchezza inapprezzabile e purtroppo si liberano in maniera tanto dissennata del bene più prezioso che posseggono.

Finito il racconto, mi è venuta una voglia matta di andare in quella discarica per vedere se ci sono scatoloni a me intestati, comunque sono assolutamente certo che là troverei una montagna di tempo perduto con cui i mestrini potrebbero essere dei Paperon dei Paperoni!

16.04.2014

La “Nave de vero”

“Tanto tuonò che piovve”. I tuoni furono tanti, e tanto rumorosi, e i lampi nel cielo dell’informazione più ancora. Però non è arrivata una pioggerellina di marzo o un piovasco di primavera, ma un autentico diluvio.

Per l’inaugurazione dell'”ipermercato metropolitano”, “La nave de vero”, sono giunti 2400 invitati e migliaia e migliaia di non invitati. Ho letto la sequenza di cifre sul Gazzettino: cinquantacinquemila metri quadri di superficie, 120 negozi, 15 ristoranti, 2400 posti auto, 600 dipendenti.

Non trascrivo di certo questi dati per fare ulteriore pubblicità al nuovo ipermercato che di certo non ne ha bisogno perché i padroni hanno comperato pagine su pagine di stampa locale, ma perché è un avvenimento che dovrebbe interessare la curia, il clero e perfino i semplici fedeli. L’apertura del nuovo ipermercato è come un fungo spuntato improvvisamente dopo la pioggia: un intero paese abitato da migliaia e migliaia di creature che, come tutti, hanno bisogno di speranza e di fede.

Ho la sensazione però che nessun ufficio di curia si sia posto il problema di “come possiamo offrire l’annuncio cristiano per questa nuova realtà”. Né penso pure che nessun fedele, per quanto devoto, abbia sollecitato la curia a predisporre un progetto per offrire il messaggio di Gesù. So di certo che il patriarca Agostini, quando la nostra città era in sviluppo, si era informato su quali fossero le aree ove sarebbero stati fatti sorgere i nuovi insediamenti abitativi e predispose un piano per acquisire i terreni per costruire le nuove chiese che avrebbero dovuto servire le comunità crescenti.

So ancora che un imprenditore cristiano che opera nel settore degli ipermercati, in una occasione come quella de “La nave de vento”, vi ha costruito una chiesa aperta al pubblico ed ha invitato un sacerdote a celebrare i divini misteri.

Leggendo i resoconti della stampa ho appreso che queste nuove strutture sono diventate le nuove “piazze reali” delle nostre città, mentre le vecchie piazze sulle quali si affacciano le porte delle nostre chiese sono sempre più deserte. Ho appreso inoltre che i progettisti del nuovo ipermercato metropolitano hanno predisposto spazi per concerti, spettacoli ed altre manifestazioni. Credo che se qualcuno avesse chiesto per tempo, i costruttori avrebbero pensato anche ad un luogo per lo spirito e forse anche adesso si potrebbe pensare a qualcosa del genere sull’esistente.

Quando poi so che un nostro prete, neanche troppo vecchio, usa un motoscafo, attraversando mezza laguna, per andare a celebrare la messa festiva a Torcello, parrocchia che conta 16 fedeli, mi viene da mettermi le mani sui capelli!

Talvolta, quando sento parlare di pastorale, ho l’impressione che si parli di una cosa che si rifà pressappoco all’età del ferro o del bronzo, perché i tempi sono corsi fin troppo veloci. Nel Vangelo, a Pasqua, abbiamo letto che già duemila anni fa Gesù disse che si fa trovare e lo si potrà incontrare “avanti” e non nel passato. Don Mazzolari ha scritto che Cristo non è più reperibile neanche nelle magnifiche cattedrali gotiche perché ora e sempre sarà ove scorre la vita ed ora, per la maggioranza dei mestrini, essa si svolge negli ipermercati.

15.04.2014

“Date voi da mangiare”

La pagina del Vangelo che tratta della moltiplicazione dei pani è nota a tutti. La riassumo telegraficamente perché mi facilita il discorso sull’argomento su cui oggi voglio fare una semplice riflessione.

La gente da due giorni interi ascolta Gesù. Gli apostoli si rendono conto, anche per esperienza personale, che bisogna mangiare e perciò chiedono a Gesù di congedare la folla perché possa andare a ristorarsi nei villaggi vicini. Con loro sorpresa il Maestro risponde: «Date voi da mangiare!». Loro si guardano attorno e obiettano che costerebbe troppo per le loro tasche e che tra i presenti, per quanto ne sanno loro, c’è solo un ragazzino che ha in saccoccia la merenda preparatagli da sua madre. Gesù tira dritto e dice: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta» (la folla è davvero immensa: cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini), poi prende il pane del ragazzino, invoca l’aiuto del Padre e dice: «Distribuite!». Il Vangelo conclude che tutti ne mangiarono a sazietà, tanto che Cristo invitò a “raccogliere gli avanzi” perché nulla andasse sprecato.

In quest’ultimo mese di aprile m’è capitato di assistere al “don Vecchi” a qualcosa di molto simile e credo che di “miracolo”, proprio di miracolo si tratti. L’associazione che, pur ogni settimana, distribuisce generi alimentari per tremila persone, è costretta ad aiutare solamente chi ha un reddito inferiore ai 600 euro mensili e, talvolta, non può accettare la richiesta di altri bisognosi perché non ha viveri a sufficienza. La logica umana è, anche oggi, quella degli apostoli: “Mandali via perché provvedano da sé!”.

Per fortuna anche oggi il buon Dio trova qualcuno per fare “il miracolo”! Un signore, dopo un anno di bussare ad una porta, ha ottenuto la risposta sperata. I sette magazzini Cadoro hanno messo a disposizione i loro prodotti legalmente non più commerciabili. In una settimana si sono rese disponibili due stanze, attrezzate con congelatore e frigoriferi industriali, s’è comprato un furgone, si è trovata una ventina di volontari, si è organizzato il ritiro e la consegna e s’è studiato pure un modo per reperire il denaro necessario per far funzionare “lo spaccio” (così chiamo il nuovo miracolo).

Un benefattore s’è accollato l’intero costo iniziale dell’operazione ed attualmente lo “spaccio” si autofinanzia non gravando da nessuno. La soluzione adottata mi pare sia di assoluto gradimento a tutti. Per un euro ogni richiedente si sceglie quattro pezzi di ciò che c’è a disposizione, più il pane che gli serve. Alla data odierna si sono aiutate 3453 persone in difficoltà. Nel contempo, col ricavato, si è riusciti a pagare il pranzo ad una persona in difficoltà e l’affitto ad un’altra.

Le persone che han reso possibile il miracolo, come il ragazzino del Vangelo che ha messo nelle mani di Gesù la sua merenda, sono parecchie e non ne cito i nomi perché i loro nomi dal 18 febbraio “sono già scritti in Cielo”. Però sento il bisogno di dire a tutti che “anche oggi è tempo di miracoli”, basta che qualcuno accetti di diventare un umile strumento nelle mani di Dio.

14.04.2014