“La bontà insensata”

Per Natale una cara e preziosa collaboratrice dei Centri don Vecchi mi ha regalato un volume dal titolo un po’ strano, “La bontà insensata”. Normalmente i titoli dei volumi sono scelti o per indicarne il contenuto o per stuzzicare la curiosità di eventuali lettori.

Come sempre ho letto la presentazione sulle due spallette della copri-copertina, una che indica il contenuto del libro e l’altra la personalità dell’autore. Poi ho pure letto la prefazione. Di primo acchito m’è parso di capire la tesi del volume, che m’è parsa essere questa: anche nei drammi più foschi e tragici della storia c’è sempre qualcuno che dissente e che costituisce quasi un faro che indica la sponda, l’approdo sicuro.

Sto leggendo con estremo interesse questo volume che, tutto sommato, si rifà alla scelta di Israele di dar vita ad una specie di registro contenente l’elenco dei “giusti delle nazioni”, ossia di coloro che durante il genocidio degli ebrei portato avanti dal governo di Hitler e seguito in maniera un po’ meno maniacale, ma sempre odiosa e disumana, da Mussolini, hanno tentato di salvare da morte certa gli ebrei destinati ai lager nazisti, mettendo a repentaglio la loro stessa vita in questa opera di salvataggio.

Il volume, oltre a questa tesi, ne porta avanti, attraverso un ragionamento quanto mai rigoroso e documentato, altre pure che offrono un sicuro punto di riferimento per chi sarebbe portato, in certe circostanze, a condannare l’intera nazione in cui esse sono avvenute mentre, secondo l’autore, le responsabilità sono sempre personali.

Nissim, autore del libro, partendo dalla tragica esperienza degli ebrei, spazia in largo analizzando i drammi del mondo intero e scoprendo sempre, al loro interno, qualcuno che per i motivi più diversi, dissente, e mettendo in pericolo la propria vita, dà testimonianza di altruismo e di umanità.

L’autore si ripromette di conservare la memoria sia delle stragi, che di chi s’è dissociato, dando testimonianza di condivisione del dramma dell’oppresso e di rifiuto del persecutore, portando l’esempio esemplare di Patulucci in Grecia, di Perlasca in Romania, di Costa in Ruanda e di Calamari in Argentina. Questi eroi in qualche modo riscattano le colpe di certi dittatori sanguinari e delle follie razziali di certi popoli e seminano la tolleranza e il rispetto reciproco nei solchi della storia.

Questa “bontà”, che in realtà non riesce mai ad opporsi in maniera risolutiva alla cattiveria, è solo apparentemente “insensata” perché almeno mette pace e serenità nella coscienza di chi la pratica e nello stesso tempo segna sempre in maniera indelebile lo spartiacque tra bene e male e questa non è una cosa di poco conto.

30.01.2014

“Ho pazienza, aspetto volentieri”

Pare che il “don Vecchi” favorisca la longevità. Sarà che l’ambiente è confortevole, sarà per la certezza che nessuno ti manderà via, sarà perché si ha la sensazione di vivere in un borgo, come una volta quando gli anziani si sedevano su una panchina a fumar la pipa e le vecchie a ricamare al tombolo o all’uncinetto raccontandosi le cose di casa, comunque sta di fatto che attualmente l’età media ha superato abbondantemente gli 84 anni e che gli ultranovantenni non sono proprio rari.

Un paio di settimane fa, dopo aver portato l’Eucaristia a nonna Gianna, che ha già compiuto novantanove anni, dato poi che avevo un po’ di tempo, mi sono fermato a conversare con lei. In pratica è stata lei a tenere il bandolo del discorso, perché io, piuttosto di essere un buon parlatore, sono cosciente di essere un ottimo ascoltatore, offrendo via via all’interlocutore nuovi indirizzi al discorso quando esso sembra stia per esaurirsi.

La veneranda signora mi ha raccontato delle figlie che sono sempre presenti, dei nipoti che pur essendosi affermati nella vita non dimenticano mai la loro nonna e la coprono di attenzioni e di affetto. Mi ha riferito delle sue abitudini alimentari, del cioccolato che prende ogni pomeriggio come tonificante, della birretta analcolica che non si fa mai mancare, del pranzo che le portano dal catering, ma che le basta per il mezzogiorno e per la sera. Mi ha detto di Tania, la sua assistente, che la coccola con tenerezza e che è meglio di una figlia. Mi ha pure descritto come passa la giornata tra riposini, ora in poltrona ora a letto, ascoltando la radio per non sentirsi sola. Ed essendo quasi cieca segue i dibattiti alla televisione riconoscendo dalla voce i principali protagonisti della vita politica. Mi ha raccontato dei suoi fiori dei quali gode accarezzandoli dolcemente con le mani.

E ad intervalli ritornava a ringraziare per l’appartamentino che le è stato assegnato più di vent’anni fa, ripetendo con commozione: “Qui mi trovo veramente bene, io sono pronta, ma se il Signore mi vuol tenere qui qualche tempo ancora, ci rimango contenta”. Poi ha concluso, con un tono un po’ sornione e divertito: «Io ho pazienza e aspetto volentieri, anche se il Signore ritarda a chiamarmi in Cielo!»

Al “don Vecchi”, come tutti possono immaginare, non è “tutto rose e fiori”, però credo che, tutto sommato, questo sia il clima e l’atmosfera che si respira generalmente, perciò penso che valga la pena di sopportare qualche croce pur d’avere la soddisfazione che gente che ha sofferto, patito, lottato tutta la vita, possa viverne così serenamente il vespero. Sono sempre stato convinto che la vita sia “una cosa buona”, ma se ci mettessimo un po’ di buona volontà potrebbe essere più bella ancora.

02.02.2014

La luce e la fede

Un paio di settimane fa i giornali e la televisione non hanno fatto altro che un gran parlare sull’interruzione dell’energia elettrica in varie vallate dell’agordino e soprattutto a Cortina. Le grandi nevicate hanno messo fuori uso chilometri di cavi di corrente elettrica e hanno danneggiato parecchie centraline.

L’uso della luce è ormai un dato scontato, nessuno più si meraviglia se premendo un bottone si accendono le lampadine ad illuminare a giorno la casa, premendone un altro i termosifoni portano in casa tepore di primavera e così per tante altre realtà di cui oggi pensiamo di non poter fare a meno. Forse solamente a causa di quella prolungata interruzione decine di migliaia di cittadini si sono resi conto di quanto abbiamo bisogno dell’elettricità e spero che abbiano capito che niente è certo e scontato. Anche la società più moderna e più organizzata non può garantire in maniera assoluta questo ausilio così utile, anzi necessario per un vivere comodo e civile.

In questi giorni, per una strana ma provvidenziale associazione di idee, ho associato la preziosità, ma pure la precarietà, di quella realtà che comunemente chiamiamo “luce”, con un’altra realtà di cui beneficiamo e che noi abitanti in paesi cristiani di antica data diamo per scontata e quasi pretendiamo ci sia elargita con sicurezza senza che muoviamo un dito per averla: la fede.

Forse questo accostamento mi è venuto avendo letto proprio in quei giorni la richiesta di Giovanni Battista, prossimo alla morte, che manda a chiedere a Gesù: “Sei tu o dobbiamo aspettarne un altro?”, nonostante avesse riconosciuto il Messia là nel Giordano quando Gesù gli aveva chiesto di battezzarlo.

Questo mi ha fatto capire quale gran dono sia la fede e quanto essa sia precaria perché basta tanto poco perché venga meno lasciandoci al buio completo e al freddo. La fede è un dono da chiedere, da difendere, da custodire e da alimentare, perché solamente la fede dà luce alla vita, ne dà significato e giustificazione e soprattutto apre un varco luminoso sulle tenebre che calano su di noi col passare degli anni.

A me capita spesso di chiedermi, di fronte alla bara di un uomo e di una donna: “che senso avrebbe faticare, cercare, soffrire, costruire, sognare, vivere, se poi quella realtà che comunemente chiamiamo “morte” venisse in un sol colpo a spegnere e distruggere tutto questo, consegnandoci al buio più pesto? Senza la fede la vita non solamente sarebbe un’assurdità, ma una beffa! Per questo e da parte mia farò di tutto per non metterla in pericolo e prego Dio che mi faccia la grazia di tenerla accesa, anche se non lo merito.

01.02.2014

La prima confessione

Me ne stavo tornando a casa dopo aver celebrato un funerale, quando squillò il telefonino. Era mio fratello don Roberto che mi chiese: «Verresti domenica a Chirignago a darmi una mano per la prima confessione dei miei bambini?». Non ci pensai un momento e gli dissi di si. Roberto mi chiede molto raramente un piacere, forse teme di turbare il riposo della mia vecchiaia.

Purtroppo, appena tornato a casa, scoprii che la richiesta coincideva con il concerto che il coro Marmolada avrebbe tenuto alla stessa ora per i residenti del “don Vecchi”. Comunque ritenni che la richiesta di mio fratello prevalesse sull’opportunità di esprimere riconoscenza ai cari amici del coro. Andai a Chirignago, nonostante la preoccupazione di suor Teresa che non ha per nulla fiducia della mia capacità di guida, nonostante le abbia detto cento volte che io ho una “guida sportiva”, quindi anche un po’ spericolata, è vero, nonostante la mia tarda età.

Arrivai puntualmente a Chirignago nonostante qualche perplessità, che mi è consueta, nel prendere gli svincoli giusti. Entrai in chiesa e, con sorpresa, scoprii che era piena come un uovo: c’erano i bambini, i genitori e forse anche i nonni e gli amici di famiglia. Nei miei sessant’anni di sacerdozio non ho mai visto una chiesa così gremita per una prima confessione. Mio fratello è un regista meglio di Fellini in queste cose, per cui la confessione risultò un evento che quei bambini di terza elementare ricorderanno anche se vivessero come Matusalemme.

Seguii con curiosità lo svolgersi di questa paraliturgia che s’è snodata agile, interessante e soprattutto capace di coinvolgimento.

I bambini si confessavano di “peccati” non da angeli ma da arcangeli, andavano poi all’altare a ringraziare il Signore, indossavano la tunichetta bianca, poi si avvicinavano ad un albero secco posto al centro della chiesa che avevo notato senza scoprirne la funzione e appendevano un fiore di carta, ciascuno di un colore diverso, tanto che alla fine delle confessioni l’albero risultava più vivace di un magnifico pesco in fiore.

Alla conclusione don Roberto chiamò ad uno ad uno i “penitenti”, redenti dalla misericordia di Dio, consegnò loro un crocifisso da mettere a capo del loro letto ed infine diede loro un sacchetto con dei grani di frumento ed un secondo sacchetto vuoto, dicendo loro che ogni volta che avessero fatto una buona azione, potevano trasferire un chicco nel sacchetto vuoto.

A Pasqua, disse loro di riportare il sacchetto delle buone azioni i cui grani sarebbero stati portati al mulino per fare la farina con la quale confezionare le ostie per la loro prima comunione.

Mentre assistevo a questo rito immediatamente intelligibile, pensai alla saggezza di Pio X che volle che l’Eucaristia fosse data ai piccoli innocenti, e soprattutto alla stupidità dei teologi soloni che si credono all’avanguardia, che vorrebbero dare la comunione quando i ragazzi sono già in crisi adolescenziale. Così conclusi che mio fratello potrebbe tranquillamente andare in Vaticano per fare il prefetto della congregazione dei sacramenti.

Infine mi presi anche un fragoroso applauso quando don Roberto mi presentò come il fratello che ha vent’anni più di lui, però ho capito che non c’era assolutamente bisogno di quella presentazione perché ogni settimana almeno un migliaio dei suoi parrocchiani leggono le mie vicende su “L’Incontro”.

31.01.2014

La nostra piccola “cattedrale”

Domenica, prima della messa delle dieci, un fedele che puntualmente viene a visitare la sua amata Concetta Lina che riposa nel nostro camposanto, mi ha portato in sagrestia la raccolta degli articoli che in tempi ormai lontani scrivevo per “Il Gazzettino” e che la sua amata consorte aveva raccolto in una cartella.

Curioso di ricordare ciò che pensavo allora, presi un foglio a caso: era il “Diario di un prete” della fine del secolo scorso, un quarto di secolo fa. L’ho letto con curiosità ed ingordigia. M’è parso di prendere in mano una fotografia di quando ero giovane: freschezza, poesia, sogno, coraggio! Lo ricopio, nel desiderio che da un lato gli amici sappiano che c’è stato un tempo in cui non ero scontato, prolisso ed aggrovigliato come ora, e dall’altro lato perché non mi dispiace che la città venga a conoscere i protagonisti e le vicende che accompagnarono quella bella realtà che oggi a Mestre sono i Centri don Vecchi.

Spero che mi si perdoni questo soprassalto di nostalgia di tempi andati.

Domenica 9 settembre 1990

Qualche anno fa, assieme ai miei anziani, ho avuto modo di fare il giro della Toscana. Porto ancora nel cuore le dolcissime sensazioni di quei caldi paesaggi fatti di colline arate di fresco, di quegli orizzonti trapunti dal verde scuro dei cipressi, ora solitari, ora in fila come fraticelli oranti, di quelle cittadine raccolte, intime e belle di una bellezza pudica e gentile.

La Toscana è una terra benedetta dall’arte, dalle pietre e dalla parlata sonora, veloce e pungente.

C’e però un’emozione intensa che non potrò mai dimenticare anche se campassi, mill’anni. Un giorno dal cielo cupo, carico di odore di pioggia imminente, in un silenzio greve, sbucai quasi improvvisamente in quello spiazzo d’erba verde cui sono raccolti, come gioielli, la cattedrale, il battistero, il cimitero e la torre pendente: eravamo arrivati a Pisa!

Mi si mozzò il fiato, la gola mi si rinchiuse e a stento trattenni le lacrime. Non ho mai visto tanta bellezza in uno spazio così ristretto: il biancore dei marmi, l’armonia totale delle linee, maestà e dolcezza, bellezza e poesia, sogno e realtà. La cattedrale pisana e gli edifici che la circondano sono veramente l’apice di una cultura, la punta di diamante di un popolo colto e laborioso che seppe pregare Dio sommo con la pietra, gli archi, le colonne e la poesia. Ricordo come fosse un istante fa che in quel momento nell’ebbrezza di quella visione, mi dissi, quasi sognando: «Anche noi dobbiamo costruire la nostra cattedrale, testimonianza del nostro tempo, della nostra cultura e dei nostri ideali».

Il «don Vecchi», per cui solamente giovedì scorso il sindaco mi ha consegnato la concessione edilizia, sarà la nostra piccola cattedrale; sorgerà ai margini di un parco erboso, là dove le pietre si raccordano con la terra e il presente industriale tende la mano al passato agricolo.

La nostra piccola cattedrale nascerà con la fatica e l’intelligenza dell’intera città. Già le sue fondamenta sono state poste con il concorso di tutti: politici, amministratori, donne del popolo, vecchi, operai, preti, socialisti e democristiani, destra e sinistra. Come non ricordare l’assemblea dell’antica Società dei 300 Campi che decretò il dono del terreno, Cesare Campa che raccolse il consenso dei fieri e liberi cittadini di viale don Sturzo, il prosindaco Righi che con pazienza certosina pose le premesse legali per l’assegnazione del terreno, la scelta coraggiosa del socialista Pontel che ne propose in giunta l’assegnazione, la telefonata del sindaco Bergamo, che dopo una notte insonne a qualche ora dall’elezione mi disse «Non si preoccupi don Armarndo, gliela diamo la licenza», gli incontri agostani di Salvagno e di Pavarato che misero attorno ad un tavolo una turba di funzionari più desiderosi di legittime vacanze che di lavoro e le tessiture intelligenti e puntuali di Santoro e della Miraglia, la pazienza di Chinellato nello sfornare progetti su progetti, e le preghiere delle nonnette e gli incoraggiamenti dei parrocchiani fedeli ed «infedeli»?

Nelle fondamenta della piccola cattedrale che sorgerà ad onore di don Valentino Vecchi, il prete che sognò una città migliore e solidale, ci siamo tutti, proprio tutti, e tutti insieme abbiamo vinto: il comune e la parrocchia, la stampa e la preghiera, la poesia e la politica.

Se non riuscissi, a mettere neppure una pietra, sarei comunque contento perché un’intera città, una volta tanto, s’è trovata unita e concorde per progettare un qualcosa di nuovo e di più umano per i propri anziani.

don Armando Trevisiol

30.01.2014

Cadoro

Spero proprio che la crepa prodottasi nella diga che sembrava impenetrabile, stia felicemente aprendosi sotto la richiesta pressante delle persone che hanno a cuore la sorte dei concittadini in maggiore difficoltà a causa della crisi economica che imperversa nel nostro Paese.

Gesù ci aveva insegnato, già duemila anni fa, come fare per ottenere quello di cui il nostro mondo ha bisogno: “Bussate e vi sarà aperto, domandate e vi sarà dato…” Purtroppo noi siamo, sì, suoi discepoli, però non abbiamo imparato ancora molto dal nostro Maestro.

E’ risaputo ormai da venti, trent’anni, che gli ipermercati e le aziende che trattano i generi alimentari devono buttare una notevole quantità di cibo, pur essendo esso ancora perfettamente commestibile: questo a motivo delle norme attuali che ne proibiscono la vendita. I giornali infatti, periodicamente, denunciano questo scandalo.

Non è sempre per cattiveria che questi generi non sono messi a disposizione di chi ne ha bisogno, ma vengono buttati; spesso è l’organizzazione della distribuzione – che deve essere la più agile e la più economica possibile – che sconsiglia queste elargizioni perché diventano un costo per l’azienda.

Noi del Polo Solidale del “don Vecchi”, ne abbiamo parlato mille volte ed abbiamo fatto quanto mai pressione presso il Comune che avrebbe strumenti per risolvere il problema. Purtroppo il nostro Comune s’è dimostrato tanto insensibile a questo problema: preferisce preoccuparsi delle “grandi navi” piuttosto che dei poveri.

Comunque, tanto abbiamo fatto che prima il “discount di Noale”, più di un anno fa, ha cominciato a consegnarci questi prodotti, poi sono arrivate alcune pasticcerie, quindi, da due mesi, la “Despar”, ed ora finalmente la “Cadoro”.

Il signor Bagaggia, direttore di una delle associazioni di volontariato del “don Vecchi”, ha bussato per un intero anno alla porta della direzione di questa catena di ipermercati e finalmente la richiesta ha superato la muraglia burocratica ed è arrivata al signor Bovolato, nostro concittadino, proprietario dei magazzini della catena della “Cadoro”.

Abbiamo avuto un incontro in cui questo signore ha dimostrato una assoluta disponibilità, anzi entusiasmo nel poter collaborare a quest’opera di bene, Ora stiamo imbastendo un’organizzazione per il ritiro dei prodotti, impresa non facilissima perché almeno due volte al giorno per sei giorni la settimana i nostri volontari dovranno passare per tutti i cinque ipermercati per il ritiro dei prodotti alimentari.

Avremmo bisogno di almeno un’altra quindicina di volontari per il ritiro e la distribuzione. Comunque sono convinto che riusciremo a farcela pensando che il numero di giovani pensionati è davvero notevole. Ai pensieri vecchi se ne aggiungono di nuovi, però la soddisfazione di poter aiutare qualcuno che è in difficoltà è già una ricompensa più che sufficiente per continuare questa bella avventura.

29.01.2014

Un dono per oggi

Ormai da molti mesi vado rimuginando un discorso che mi sta aprendo ad una visione nuova e più positiva sul modo di vivere il messaggio cristiano. I testi della Sacra Scrittura che qualche settimana fa la Chiesa ha offerto alla meditazione dei fedeli me ne hanno dato una valida conferma.

Nella terza domenica dell’anno liturgico, come prima lettura c’è un brano di Isaia che preannuncia i doni che il Messia avrebbe portato in questo nostro mondo: “Il popolo che camminava nelle tenebre vedrà una grande luce. Il Messia moltiplicherà la gioia e la letizia, spezzerà il giogo che opprime la gente”. In pratica il grande profeta afferma che il Cristo porterà luce, gioia e libertà, realtà che sono per l’uomo come l’aria per gli uccelli e l’acqua per i pesci, ossia le realtà alle quali l’uomo aspira con tutto il suo essere: felicità, verità e libertà.

Tutto questo è esattamente l’opposto di una certa lettura della proposta cristiana che pare tutta tesa a mortificare le aspirazioni più profonde e reali dell’uomo. Io penso che certo ascetismo coltivato nei secoli scorsi è sicuramente proveniente dal giansenismo cupo e chiuso in se “stesso”, proprio dei paesi nordici ed ancora presente in certi ordini religiosi e in una certa pietà popolare coltivata da preti misogini e rinunciatari che predicano un Avvento del Regno di Dio che si realizzerà soltanto nell’aldilà e non nel presente.

Eppure Gesù ha detto: «Vi porto la mia gioia e voglio che essa sia grande». Credo che sia ora e tempo di affermare che Cristo è venuto a portare luce, gioia e libertà, perché la nostra vita quaggiù sia bella e felice, senza nulla togliere poi alla felicità futura. Il Regno predicato da Cristo è il nuovo modo di vivere, di pensare, di agire, che deve essere la prerogativa e la nota qualificante del cristiano di oggi.

Nel Vangelo di questa stessa domenica mi pare poi di trovare la riconferma: convertitevi, perché il Regno di Dio è vicino!”. Traduco: “Cambiate modo di pensare e di vivere perché solo così potrete vivere il tipo di vita che sono venuto ad annunciarvi!”. Quando Gesù aggiunge: «Il Regno è vicino», io lo traduco: “Questo nuovo modo di vivere è possibile, è a portata di mano, quindi cambiate registro e godete anche ora, subito, del dono che il Padre vi ha fatto.

Mi pare impossibile che Dio Padre ci abbia fatto un dono che ha il gusto dell’olio di ricino e l’odore dell’acido fenico; questo non sarebbe certo un dono, ma un castigo!

Ricordo che molti anni fa ho fatto un ritiro spirituale nel coro dei cappuccini a Mestre. Avevo di fronte a me un quadro del sei-settecento in cui era raffigurato un frate cappuccino dal volto emaciato, con due occhi quasi fuori dalle orbite che guardavano intensamente un teschio che teneva tra le mani. Allora pensai: “Signore, se il tuo Regno è questo, vi rinuncio fin da subito!”.

Credo quindi che sia tempo di smantellare in maniera radicale una certa ascetica che poggia solamente sulla rinuncia, sulla mortificazione di ogni sogno e di ogni entusiasmo, su un grigiore cupo ed anonimo. I nuovi cristiani della negritudine l’hanno capito pure loro trasformando letteralmente “il pianto in danza”; infatti lodano il Signore danzando e cantando, nonostante la loro povertà.

28.01.2014

“Diario proibito”

Tre o quattro settimane fa, sfogliando quel bel quindicinale che è “Il nostro tempo” di Torino, sono stato attratto dal titolo di una critica su un’opera di una scrittrice russa, Olga Berggol’c. Il volume ha come sottotitolo esplicativo: “La verità sull’assedio di Stalingrado”. Ho letto la critica, dalla quale ho appreso che l’autrice scrisse per due anni il diario della sua vita a Stalingrado durante l’assedio, durato 900 giorni, da parte delle armate naziste. Il giornalista sottolinea che questa donna fu costretta a nascondere il diario nel cortile del caseggiato per non aver noie con la polizia perché era già stata incarcerata per un anno per motivi quanto mai banali.

Il mio interesse per questo libro aveva due motivi. Il primo: vedere come questa scrittrice aveva impostato il suo diario, nel desiderio di apprendere qualcosa di specifico, dato che quello che scrivo io ogni settimana risulta un po’ elemento portante del nostro periodico. Secondo – motivo più consistente: sono stato sempre attratto dalle vicende tragiche dell’ultima guerra. Il fatto poi che il diario si rifacesse all’assedio di Stalingrado fece riemergere dalla mia memoria un volume di una tragicità infinita: “Le ultime lettere da Stalingrado”, contenente le lettere spedite dai soldati della Wermacht assediati a Stalingrado. La raccolta di queste lettere è successiva nel tempo a quanto documentato nel succitato volume, perché tratta del periodo durante il quale i tedeschi, espugnata Stalingrado, a loro volta rimasero accerchiati dalle divisioni sovietiche.

Devo confessare che non ho trovato in questo “Diario proibito” ciò che mi aspettavo, però ho scoperto due verità importanti. La prima: per una donna l’interesse più importante, anzi assoluto, è la bellezza dell’amore suo e quello dell’uomo amato. L’autrice del volume parla in maniera intensa delle sue vicende amorose che neppure la condizione tragica della città assediata e bombardata giorno e notte riescono ad appannare. L’amore per lei viene assolutamente prima di tutto.

Finora, nonostante i miei 85 anni di età, non avevo ancora scoperto così chiaramente questa verità. La seconda, non meno importante, anche se l’avevo intuita da tanto tempo: l’utopia di Lenin, di Trotzkij fu un grande sogno del tutto condivisibile sul piano teorico, però il tentativo di realizzare questa utopia da parte di Stalin, dittatore sanguinario e spietato – ossia il cosiddetto “comunismo reale” – fu un qualcosa di talmente disumano, irrispettoso della persona, della sua dignità e della sua libertà, che ben difficilmente si può immaginare qualcosa di peggiore. Anche per i comunisti più incalliti il “Comunismo reale” della Russia di Stalin naufragò in una burocrazia soffocante, gestita da funzionari faziosi, arrivisti, illiberali, sospettosi, delatori e cretini, che censuravano, incarceravano ed uccidevano gli uomini migliori, ossia quelli più liberi ed intelligenti.

L’autrice credeva in maniera assoluta nell’utopia socialista come riscatto dall’oscurantismo e dispotismo zarista, però, da persona intelligente, rifiutava e condannava senza appello l’oscurantismo e la meschinità dell’apparato statale del suo Paese, sognando non solo la pace, ma pure tempi nuovi e diversi.

La lettura del volume mi ha riconfermato nella convinzione che le grandi utopie – e tra queste anche quella cristiana – incarnandosi si impoveriscono sempre, ma se sono gestite da uomini che non amano la libertà, la verità e se non accettano la critica di chi la pensa diversamente, sono destinate ad opprimere e schiavizzare i popoli anziché elevarli.

27.01.2014

L’esperienza dello spreco

Lo studio teorico dei problemi dell’uomo e della società è certamente importante, però finché uno non ci si cala dentro e non ne fa diretta esperienza, difficilmente ne diventa veramente consapevole.

Il volume che contiene la “dottrina” di uno degli ordini religiosi più recenti, quello dei “Piccoli fratelli di Gesù”, fondato da Charles De Foucauld, ha come titolo “Come loro”. Il testo, che può essere considerato “la Regola” o “la Magna carta” di questo ordine, prescrive a questi religiosi del nostro tempo di condividere le condizioni esistenziali degli ultimi della nostra società, vivendo come loro, nelle stesse abitazioni, con le stesse condizioni di vita. Soltanto la condivisione reale permette una conoscenza vera dei loro problemi e rende possibile la solidarietà per la quale può passare il messaggio evangelico.

Anche recentemente mi è capitato di affermare che altro è parlare dei poveri, pregare e operare a loro favore, e altro è vederli nella sofferenza della loro condizione e condividere con loro i disagi che la povertà comporta.

Io ormai da molti anni seguo le notizie riportate dai giornali circa le migliaia di tonnellate di generi alimentari e di frutta e verdura che vanno sprecate ogni giorno e buttate nella spazzatura, mentre potrebbero sfamare un numero consistente di poveri. Vedere con i propri occhi gli alimenti che solo un ipermercato o un semplice negozio destina alla spazzatura ogni giorno, è un qualcosa che turba in maniera profonda, qualcosa che mette veramente i brividi e fa nascere un senso di indignazione verso la nostra società dell’opulenza, del consumo e dello spreco.

Grazie alla mediazione di un giovane assessore del Comune di Venezia siamo riusciti a farci dare ogni giorno i generi alimentari che l’ipermercato Despar della nostra città non può più mettere in commercio per i motivi più disparati, ma che sono assolutamente mangiabili senza ombra di pericolo.

Mai avrei immaginato che un solo ipermercato fosse costretto per legge a buttar via ogni giorno tanto ben di Dio!

Circa un mese fa una signora è venuta a conoscenza che nelle pasticcerie ogni sera le paste con la crema devono essere buttate perché perdono un minimo della loro freschezza e quindi non sono più proponibili alla difficile e viziata clientela. Da allora, tramite l’intervento di questa cliente, i proprietari di due pasticcerie della città donano ai nostri Centri queste “bontà” che altrimenti andrebbero perdute. Ebbene, a queste due pasticcerie se ne sono aggiunte altre due. Penso che i cinquecento residenti dei Centri don Vecchi nella loro vita mai abbiano mangiato così tante leccornie.

Se più gente si impegnasse per i fratelli in difficoltà e ne condividesse il disagio, credo che potremmo fare ancora miracoli e operare per cambiare questa nostra società semplicemente assurda.

17.01.2014

Il primo passo falso di Renzi

Fino ad un anno fa non sapevo neppure che Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, esistesse. Poi ci sono state le primavere del partito democratico, che non solo hanno dato notorietà al segretario Bersani, ma pure al suo competitore Renzi. Allora venni a sapere che questo giovane politico proveniva dalle file dello scoutismo, l’associazione a cui sono fortemente legato per esserne stato l’assistente per più di trent’anni. M’accorsi pure che aveva una parlata briosa, simpatica ed accattivante, facile alla battuta ad effetto, ma pure dimostrava una decisione sorprendente nelle proposte politiche che andava facendo.

Tutto questo mi rese quanto mai simpatico questa nuova speranza della politica. Quando poi Renzi mise in testa alla sua campagna elettorale che “considerava suo onore meritare fiducia” ed, una volta sconfitto, ammise subito la vittoria del suo competitore, si felicitò con lui e si mise a disposizione per tutto quello che Bersani credesse opportuno, tutto ciò aumentò la mia fiducia.

La disinvoltura di questo ragazzo, il suo ottimismo, la sua volontà di fare subito e bene quelle riforme che attendiamo da decenni, crebbe la mia speranza di poter finalmente contare su un cavallo di razza che avrebbe potuto cambiare il volto della disastrata e deludente classe politica italiana.

La brillantissima vittoria, con una maggioranza notevole, fece il resto, tanto che finalmente mi parve che il trio Letta, Alfano e Renzi, giovani, intelligenti, di cultura cristiana, avrebbe risollevato le sorti del nostro Paese. Avvertii però che questo mio entusiasmo, che non tenni affatto nascosto ma che anzi palesai ai quattro venti, non era condiviso neppure da tutti i miei cari amici. Tuttavia, non avendo alternative, continuai a sperare nell’arrivo della “primavera” anche nel nostro parlamento e nel nostro Paese. Non mi nascosi le difficoltà che sono apparse fin da subito dopo l’affermazione elettorale del sindaco di Firenze, tanto che lo immaginai come “Daniele nella fossa dei leoni” pronti a sbranarlo al primo passo falso.

Al mio entusiasmo, non da tutti condiviso, succedettero le prime preoccupazioni per la sua entrata spavalda a gamba tesa nell’agone politico, ove vi sono “leoni” ben più feroci di quelli di Daniele. E alla preoccupazione si aggiunse una incipiente delusione. La dichiarazione di Renzi di voler legiferare subito sui “matrimoni di fatto” tra gli omosessuali mi fece salire alla memoria le sagge parole della Bibbia: “Fortunato e saggio chi si fida del Signore ed infelice chi confida nell’uomo”.

Con tanti problemi assolutamente urgenti ed inderogabili – la disoccupazione, le tasse, la gioventù senza lavoro – che Renzi si impunti sui matrimoni gay mi pare davvero sorprendente. Non ho nulla in contrario che lo Stato si occupi anche di questa gente, ma penso che si debba cominciare con qualcosa di più serio e urgente. Spero proprio che a questo passo falso di Renzi non ne seguano altri di simili.

16.01.2014

Il povero “dio” di Scalfari

Io raramente ho letto “Repubblica” e perciò non conosco bene Scalfari che ne è stato il fondatore e che tutt’oggi, pur non essendo più il direttore, scrive per Repubblica editoriali di gran peso. Soltanto ultimamente, avendo letto con sommo piacere i dialoghi di Scalfari col cardinal Martini, prima, ed ora con Papa Francesco. ho apprezzato la sua vasta cultura e il suo stile fresco, scorrevole, immediato e piacevolissimo. Quando Scalfari descrive la cornice e l’atmosfera dei suoi incontri con questi due uomini di Dio, è veramente insuperabile. Mi pare di ritrovare l’essenzialità, la piacevolezza e l’incanto di Indro Montanelli del Corriere della sera e di Ricciardetto di Epoca.

Pure ho ammirato la sua sensibilità, la delicatezza e l’affettuosità nel dialogare sia con Martini che con Papa Francesco. Mi è sembrato quasi che avvertisse qualcosa di sublime in queste due personalità e si sentisse onorato e, nello stesso tempo, soggiogato dall’autorevolezza, dalla santità e dalla saggezza di questi due sacerdoti: mai una parola di troppo, mai un cenno di polemica, ma sempre grande rispetto ed attenzione al loro argomentare.

Io da questa lettura ho concluso che, se anche non lo confessa, Scalfari senta una profonda nostalgia della fede e ne sia un ricercatore appassionato, anche se ribadisce le sue dichiarazioni di ateismo dal quale non osa ancora sbarazzarsi per aprirsi alla luce e alla verità.

Dove però Scalfari cade in maniera rovinosa è quando egli parla del suo “dio”. Allora casca il palco e avverti di scoprire un pensiero fragile, macchinoso, di stampo scientista, tutta roba da vecchio illuminismo da soffitta.

Papa Francesco si rivolge a Scalfari con un accento di paternità, ma anche di profondo rispetto; gli chiede: «Come pensa sia quell'”essere” che lei afferma sia il supporto di fondo della sua filosofia? Mi può chiarire il suo pensiero ?». Al che mi pare che Scalfari si arrampichi affannosamente sugli specchi rispondendo: «L’essere è un tessuto di energia, energia caotica, ma indistruttibile ed in eterna caoticità. Da quella energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici che si combinano casualmente, evolvono ed infine si spengono».

Il povero “dio” di Scalfari che è “caotico” ed in “eterna caoticità” sarebbe la sorgente dell’universo, che è più ordinato di un orologio svizzero con leggi fisse e coordinate le une alle altre, che sempre e per secoli esprimono l’ordine quasi perfetto dell’universo, sia in ogni creatura che nell’uomo.

Credo che anche lo studentello delle prime classi del liceo, che abbia studiato un po’ di “logica”, o di “teodicea” di san Tommaso, metterebbe in difficoltà il pur illustre e prestigioso giornalista.

Il tallone d’Achille di Scalfari è veramente rovinoso e da questo si capisce che finora esso non gli ha permesso di scoprire l’ordine dell’universo.

15.01.2014

Declino inarrestabile

In questi giorni “Il Gazzettino” è ritornato più volte sul discorso dello stadio perché il russo che si è offerto di costruire un nuovo stadio in quel di Tessera s’è spazientito per l’indecisione e la lentezza del Comune di Venezia ed ha minacciato che se non si arriverà all’autorizzazione entro tempi strettissimi, ritirerà definitivamente la sua offerta.

Questo stadio è una vecchia storia. I due stadi esistenti, il “Penzo” di Venezia e il “Baracca” di Mestre, sono piccoli, fatiscenti ed inadeguati, pari neppure a quelli di Preganziol o di Campagna Lupia. E’ vero che le squadre di calcio di Venezia-Mestre sono ben lontane dall’essere squadre meritevoli di un’opera moderna, però la popolazione sportiva delle due città da almeno mezzo secolo reclama uno stadio adeguato.

Ricordo una scenetta spassosa alla quale ho assistito almeno cinquant’anni fa durante un incontro su questo argomento al Laurentianum di Mestre. Uno dei miei giovani scout, che ora è in pensione ormai da quasi dieci anni e che da sempre ha praticato l’atletica leggera, durante l’incontro alzò la mano per chiedere la parola; poi, adottando lo stile degli imbonitori da fiera di paese che reclamizzano gli articoli da vendere, cominciò il suo intervento al ribasso: «Non potete farci uno stadio da centomila, fatecelo pure da ottanta. Non è possibile da ottanta? Scendiamo a cinquanta… e via di seguito finché si ridusse a chiedere uno stadio da mille persone, purché lo si facesse.

E’ passato mezzo secolo. Massimo Di Tonno, che fu il piacevole protagonista di questa scenetta spassosa, ormai non è più giovane e penso che sia più preoccupato delle case di riposo che dello stadio, ma il nostro Comune lumaca, ancora una volta corre il rischio di perdere anche l’ultima occasione dopo aver perso quella della torre Lumière, del carcere e di non so quante altre opportunità.

Sono arrivato alla conclusione che il declino di Venezia, cominciato con la scoperta dell’America – scoperta che ha cambiato le rotte del commercio mondiale – si sta concludendo ai nostri giorni con il degrado della città, con l’acqua alta, l’illusione di essere ancora la “regina dei mari” e l’inefficienza dei nostri amministratori.

“Povera Venezia, si bella e perduta!”. Ormai sul ponte sventola da decenni la “bandiera bianca” della resa senza neppure l’onore delle armi!

14.01.2014

L’avallo di Papa Francesco

Un paio di mesi fa ho dedicato una pagina del mio diario al pensiero religioso di padre Ernesto Balducci. Questo sacerdote, appartenente all’ordine dei Padri Scolopi, fiorentino di nascita e morto in un incidente automobilistico una ventina di anni fa, fu quanto mai noto al tempo della ricostruzione perché nel dopoguerra fondò una bellissima rivista di ispirazione cristiana; “Testimonianze”, mensile che ho seguito con tanta ammirazione per moltissimi anni e che poi ho lasciato perché mi è parso che la linea editoriale si fosse spostata eccessivamente a sinistra a livello politico e fosse un po’ troppo di fronda a livello ecclesiale.

Ritrovai padre Balducci un paio di anni fa leggendo un ottimo volume di don Piazza sulla vita e sul pensiero del sacerdote friulano, parroco, se non per punizione, ma di certo confinato, in una minuscola parrocchia dal suo vescovo perché “non facesse troppi danni” a livello di pensiero. Don Piazza è un grande ammiratore di padre Balducci, tanto da dedicargli una sua struttura di accoglienza per i profughi del mondo.

Infine, tre o quattro mesi fa, qualcuno mi regalò un volume quanto mai arduo da capire, dello stesso padre scolopio, “L’uomo planetario” nel quale, tra l’altro, questo intellettuale sosteneva la tesi che il meticciato dei popoli avrebbe finito di essere tale anche a livello religioso. Questo avrebbe portato ad un ecumenismo reale che avrebbe dato vita ad un denominatore comune tra le religioni spingendole ad operare per la pace e il benessere dell’uomo.

La tesi mi affascinava, ma l’ho presentata con le pinze, temendo che avesse qualcosa di ereticale, perché ammetteva un pluralismo religioso impegnato soprattutto a cercare il Regno dei Cieli quaggiù, pur non escludendo quello dell’aldilà. Dentro di me ho sempre pensato che il buon Dio gradisse di più che noi, suoi figli, ci aiutassimo ad andar d’accordo e a vivere una vita possibilmente più felice, piuttosto che fossimo troppo impegnati in riti misteriosi che abbondano di acqua santa e di nuvole di incenso, ma soprattutto che noi perdessimo troppo tempo in contese dottrinali, peggio ancora in “guerre sante”.

Confermo che ero molto preoccupato di non andar troppo fuori dal seminato. Però il volume che sto leggendo “Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, dialogo tra credenti”, va molto oltre, tanto da farmi sentire un vetero cattolico, conservatore, quanto mai retrogrado e superato dalle posizioni del Santo Padre.

Man mano che procedo a leggere i discorsi del Papa, tanto più mi sento innamorato di questa dottrina fresca, limpida ed innovativa. Cosicché, alla proposta timida di Enrico, mio amico e collaboratore, di dar vita a qualcosa che faccia cassa di risonanza alla rivoluzione di Papa Francesco, ho aderito immediatamente e con entusiasmo. Così è nato il piccolo nuovo settimanale “Il messaggio di Papa Francesco”

13.01.2014

I miei “amici” di carta

Qualche giorno fa ho scoperto, con poco entusiasmo, un quotidiano del quale non avevo mai sentito parlare; mi è parso quanto mai fazioso e settario e ho quindi messo in guardia i miei amici dalla frequentazione di questo “cattivo compagno”.

Anche quest’anno ho scelto gli amici con i quali intendo fare il tratto di strada segnato da questo 2014, pur essendo convinto che la realtà è estremamente poliedrica e che perciò, come si diceva un tempo, può essere vista sia da destra che da sinistra, seguendo l’antica massima di Orazio “ci sono determinati confini al di qua e al di là dei quali non può consistere il retto” o quell’altra, altrettanto sensata “La virtù (e pure la verità) sta sempre nel giusto mezzo”. Ritengo che il confronto di tesi e di idee, per quanto siano diverse, è sempre utile, però sono pur convinto che quando qualcuna di queste tesi e di queste idee è sempre e comunque negativa e soprattutto estremista, allora il confronto piuttosto che utile diventa dannoso. Attualmente “gli amici” con i quali amo confrontarmi e dei quali ascolto le opinioni, sono le testate di una serie di periodici che, tutto sommato, condividono i miei stessi valori di fondo ed offrono una lettura degli eventi almeno vicina alla mia. Ne faccio l’elenco perché i miei amici mi possano conoscere un po’ meglio e, semmai lo ritenessero opportuno, possano sceglierli pure loro come compagni affidabili. Essi sono: “Il nostro tempo” di Torino, un quindicinale con una critica serena, approfondita e, credo, onesta, degli eventi e dei personaggi della nostra società; “Il cenacolo”, il mensile dei Padri sacramentini, splendido dal punto di vista grafico e ricco di dossier su argomenti specifici; “Il messaggero di Sant’Antonio”, il mensile del quale si stampano in assoluto più copie in Italia, periodico poliedrico, serio ed intelligente; “Vita pastorale”, il periodico dei discepoli di don Alberione che tratta, in maniera specifica, le problematiche pastorali; “Gente veneta”, il settimanale del nostro patriarcato, diretto da mio nipote don Sandro Vigani, che informa puntualmente ed in maniera equilibrata ed intelligente sulle problematiche della Chiesa, della città di Venezia e della diocesi; “Se vuoi”, il quindicinale delle Suore paoline che si occupa in maniera particolare delle scelte esistenziali.

A questi amici, che mi sono scelto da tempo e che ho riconfermati come tali, si aggiunge un’altra serie di compagni di viaggio sui sentieri del pensiero e della vita, che mi vengono offerti dopo averli letti, dai miei coinquilini: i quotidiani “Avvenire” e “Il Gazzettino”, “L’Osservatore romano” e i settimanali “Famiglia cristiana”, “Credere” e “A sua immagine”, una stampa seria, spesso ben informata e sempre edificante.

Mi permetto quindi di indicare a tutte le persone che hanno per me un pizzico di stima e che mi vogliono bene, almeno alcuni di questi miei “grandi amici”.

11.01.2014

Il breviario

“I promessi sposi” io li ho letti una cinquantina di anni fa e forse più. Avrei desiderato rileggerli ancora, ma penso che ormai me ne manchi in assoluto il tempo. Una delle figure che sono rimaste nella mia memoria, pur un po’ sfuocata ma presente, è quella di don Abbondio. Credo che la cosa sia comprensibile perché, tutto sommato, don Abbondio è un mio “collega” a motivo del “mestiere” che ambedue abbiamo scelto di fare.

Per me, onestamente, egli rappresenta però un protagonista del mondo religioso in negativo, perché se c’è una figura di prete che rifiuto decisamente è quella del prete pavido, asservito ai ricchi e ai prepotenti, del prete rassegnato che fa il suo “mestiere” senza voler noie o correre pericoli di sorta.

Quando mi capita di pensare al capolavoro di Manzoni mi viene in mente don Abbondio sgomento e piagnucolante che incontra per strada i due bravi mentre sta recitando in maniera tranquilla il suo breviario. Sono convinto che fino a qualche anno fa l’immaginario collettivo pensava il prete come un uomo un po’ rubicondo e in tonaca nera col breviario tra le mani. Forse pochi sapevano che cosa sia il libro, legato in maniera indissolubile alla figura del prete, comunque credo che i più lo pensassero come un libro di preghiere.

Difatti la recita del breviario, che la Chiesa prescrive a tutti i sacerdoti, è la preghiera ufficiale per l’intera comunità cristiana. Probabilmente questo rito deriva dalla tradizione della vita monacale che è tutta imperniata sul lodare Dio negli snodi principali del giorno: dal primo mattino, con la recita del “mattutino”, fino alla tarda sera, con la recita della “compieta”.

Io, pur non essendo un patito o un entusiasta di questo modo di rivolgersi a Dio, fatto attraverso i salmi dell’Antico Testamento e di molte letture scritte dai padri antichi della Chiesa perché questo modo di pregare mi pare uno strumento assai lontano dalla cultura e dalla sensibilità del mondo d’oggi, vi sono rimasto sempre fedele, sia perché ritenevo giusto obbedire a questa prescrizione, sia perché ritenevo pure opportuno ricordare a Dio l’intera collettività.

Anche al tempo in cui ero estremamente impegnato ho mantenuto fede alla recita del breviario più per dovere che per un bisogno interiore. Spesso recitavo il diario nei momenti possibili, tanto da ritrovarmi a tarda sera a pregare perché Dio mi assistesse durante la giornata già vissuta o al mattino a ringraziare del giorno che non avevo ancora trascorso. Ora recito tutto il breviario di primo mattino lasciando al Signore di sistemare la mia preghiera nelle ore che crede più opportune.

Sennonché, qualche giorno fa, ho letto in una rivista dedicata ai sacerdoti, che appena il sedici per cento dei preti recita ancora il breviario. Ci sono rimasto male, non tanto per la fatica e il sacrificio che ho fatto, quanto nel constatare che il mio “piccolo mondo” è cambiato anche da questa parte e che sono rimasto un povero superstite del passato.

12.01.2014