Evoluzione positiva

A questo mondo ci sono stati i “Laudatores cantores temporis acti”, cioè chi loda, rimpiange il passato ed auspica che ritorni. Credo che anche i romani abbiano notato e certamente non approvato questo comportamento.

Il mondo religioso in specie, credo che sappia di questa sindrome del rimpianto della religiosità dei vecchi tempi. Ricordo un bellissimo passo di don Mazzolari che afferma che Dio non si incontra più neppure nelle bellissime cattedrali gotiche, nella religiosità di secoli passati in cui sembrava che tutto il popolo, nessuno escluso, fosse credente.

Ricordo di aver letto gli atti di una visita pastorale del cardinal Flangini nelle parrocchie veneziane; a parte che sembrava che al vescovo interessasse esclusivamente il numero di tovaglie e di che tessuto fossero, in ogni parrocchia i parroci riferivano che chi non faceva la Pasqua erano 10 o 14 cristiani. Comunque, tornando a Mazzolari, nel passo suddetto affermava che gli uomini possono incontrare Dio e suo figlio Gesù solamente nel futuro, nel mondo che si sta facendo.

Oggi i cristiani convinti, quelli solamente battezzati o comunque anche gli uomini di cultura cristiana, sono di certo sostanzialmente più religiosi di quelli dei secoli nei quali sembrava che il cristianesimo si imponesse in tutti gli ambiti.

RIcordo un episodio che la dice lunga al riguardo. Un uomo dice al suo nemico: «Bestemmia, altrimenti ti uccido». Una volta che costui cede alla violenza, lo uccide, pensando così di non avergli tolto soltanto la vita terrena, ma di averlo anche privato della vita eterna. Che cristianesimo è mai questo?

L’uomo di oggi, credente o meno, ha assimilato certi valori che sono essenzialmente cristiani, quali il senso della dignità, della libertà, della democrazia, della giustizia, della parità tra uomo e donna, della solidarietà e tanti altri valori che nel cosiddetto “popolo di Dio” descritto nella Bibbia sono assolutamente ignorati, ma anche nei tempi della cristianità erano meno presenti sia nei singoli che nella coscienza collettiva.

Certi preti, certi cristiani, cosiddetti “impegnati”, non hanno ancora capito che l’avvento del Regno non si realizza quando le messe sono più frequentate o più cittadini fanno la Pasqua, ma quando per motivi di fede, ma pure per qualsiasi altro motivo, altri – perfino gli indifferenti, gli agnostici o gli atei – aderiscono e praticano nella sostanza la proposta del Vangelo.

Per un prete è certamente confortevole vedere la chiesa piena, però se chi riempie la chiesa non è alla ricerca consapevole o inconscia del Regno, questo varrebbe veramente poco. Forse è tempo di cominciare a leggere in maniera più critica la risposta che l’uomo oggi deve dare a Dio.

La fede degli umili

Ho conosciuto un cappuccino, padre Fiorenzo Cuman da Marostica che si è impegnato per molto tempo a catalogare i capitelli di tutta la pedemontana, della Marca trevigiana e del veneziano. Questo padre ha avuto la gentilezza di regalarmi uno dei suoi 27 volumi scritti su questo argomento, volume nel quale ha pubblicato la foto, le dimensioni e un po’ di storia di ognuna di queste piccole strutture sacre costruite normalmente da qualche abitante del luogo e dedicate alla Vergine o alla devozione di qualche santo particolare.

La raccolta che mi è stata regalata porta il titolo “La fede degli umili” e riguarda i capitelli di Bassano e dei dintorni. Essa risulta estremamente varia per quanto riguarda la struttura che fa da cornice e da supporto all’immagine sacra..

Alcuni di questi tempietti o di queste edicole agresti sono estremamente elementari, altri invece sono più elaborati, tanto da meritare la denominazione di “piccolo tempio”. Qualcuno pare sia stata progettato da un geometra o da un architetto, altri invece sono tali da non portare i segni di qualcuno che avesse dimestichezza con l’architettura.

Sempre queste edicole sono segno di una pietà popolare che fino a pochi anni fa era estremamente diffusa non solamente tra i campi e nei paesetti della pedemontana, ma anche nelle calli della stessa Venezia. Queste edicole sacre non solamente sono il segno della fede umile dei nostri padri, ma credo che siano rimaste tuttora un piccolo santo segno che nei luoghi più disparati ci ricorda che la nostra vita dipende da Dio e che deve diventare una lode perenne ed un canto di riconoscenza.

Ho scorso il volume con attenzione e non c’è quasi immagine sacra inquadrata in queste piccole edicole che non abbia un vaso di fiori freschi.

Partendo da questa esperienza particolare una quindicina di anni fa posi all’imbocco delle strade della mia vecchia parrocchia una miniedicola di legno con una Madonnina in cotto, non solo perché vegliasse e proteggesse gli abitanti di quella strada, ma perché gli abitanti di ogni strada, entrando e uscendo di casa rivolgessero un saluto ed una invocazione alla Vergine: “Ave Maria”. Quando ho occasione di passare per queste strade, constato che molte sono ancora presenti e ben curate.

Il grande teologo Romano Guardini ha scritto un magnifico volumetto che dimostra che anche l’uomo di oggi ha ancora bisogno di questi piccoli “santi segni” per sentire che il buon Dio gli è vicino, l’accompagna e gli vuol bene.

I delitti sono sempre delitti

Dico sinceramente che quando Berlusconi ogni tanto tira fuori dal suo cilindro lo spauracchio del comunismo, provo una qualche irritazione. Quello del comunismo è stata una fase storica come la rivoluzione francese che proponeva dei valori grandi e positivi, ma chi si è appropriato di questa proposta è stato spessissimo spietato e crudele e sprezzante della libertà e della vita altrui. Punto e basta!

Ci sono dei criminali tout court e altri criminali che agiscono dietro il paravento di valori politico-sociali: per il comunismo è avvenuto così….. Il nostro tempo certamente fruisce dei benefici di questi fenomeni sociali.

Credo che la nostra democrazia non sarebbe qual è, se queste grandi utopie non avessero rotto, purtroppo violentemente, le società e i regimi anteriori, che senza questi enormi scossoni non si sarebbero mai sgretolati.

Posso ammettere che ci siano ancora dei velleitari e dei ritardatari della storia…, ma questo avviene per ogni fenomeno storico e certamente per loro la storia non devia il suo corso. Ora non esiste più il comunismo reale, ossia come movimento di massa strutturato ed operante, al massimo ci sono delle “rimanenze” che si ispirano a quelle utopie, ma sempre sono rimasugli storici di sognatori e di nostalgici, ma sono fuori tempo e perciò non possono sopravvivere.

Detto questo, a scanso di equivoci, dobbiamo anche affermare che il comunismo di Trotzki, Lenin e soprattutto Stalin è stato un fenomeno di inaudita ferocia, portato avanti da visionari pazzi e sanguinari.

Ho letto recentemente su “Avvenire” le atrocità assurde operate da Stalin, atrocità inconcepibili che fanno ancora rabbrividire per i milioni di persone che ne sono state vittime sacrificali. La storia è storia anche se certi partiti nostrani, spesso correi, hanno tentato di coprire con foglie di fico queste atrocità assurde.

Mi disturba chi coniuga al presente quello che invece è passato ma altrettanto mi disturba e mi fa ribrezzo chi tenta di giustificare i protagonisti di chi si è avvalso di queste aspirazioni popolari per sfogare i suoi istinti brutali.

Ringraziamo il buon Dio di averci pressochè risparmiato i crimini del comunismo, del nazismo, del fascismo, del franchismo e di tutte le altre dittature del nostro tempo.

La “serrata” delle chiese

Ormai da più di un anno a questa parte sulla stampa cattolica non sento che enfatizzare il problema degli ipermercati che, nonostante le proteste delle commesse, dei sindacati e dei preti, rimangono aperti anche alla domenica, giorno sacro al riposo e al Signore, mentre queste catene di ipermercati, sempre a caccia di clienti, insistono nel tener aperto anche alla domenica.

Non sono proprio io a difendere le posizioni degli ipermercati anche se, per onestà, debbo ammettere che tantissime altre categorie di dipendenti dall’epoca dell’industrializzazione lavorano con buona pace di tutti, giorno e notte e tutti i santi giorni dell’anno. Comunque onestamente credo che potremmo vivere e le botteghe potrebbero prosperare nonostante la chiusura domenicale: chi ha soldi per comperare lo farebbe comunque.

Quello che invece mi stupisce è che, mentre c’è questo zelo da parte delle industrie per accaparrarsi qualche cliente in più, nessuno protesta per la “serrata” quasi completa delle chiese della nostra città durante i giorni feriali e parziale in quelli festivi. Pare che i preti siano ben paghi di quel 10, 20 per cento di battezzati che vanno a messa la domenica.

A Venezia dicono che hanno il problema delle opere d’arte che rimarrebbero incustodite, però a Mestre questo problema non c’è perché non ci sono opere d’arte; ci sarà forse qualche cassetta dei lumini o delle candele, ma non ci sono “tesori” da rubare.

A parte gli scherzi, il fatto delle chiese chiuse mi preoccupa, ma ancora di più mi preoccupa che nessuno protesti perché si chiude dietro i catenacci quel Gesù che solo può confortare nei momenti di tristezza e di prova. Non vorrei essere accusato ancora una volta di autoreferenzialità affermando che a Carpenedo la chiesa, quando c’ero io, era aperta dalle sette del mattino alle sette di sera ed ora la stessa cosa vale per la mia “cattedrale tra i cipressi”, senza problemi di sorta.

Un “sacrilegio” senza reazioni di sorta

Qualche giorno fa ho letto su “Gente Veneta”, il settimanale del patriarcato di Venezia, un servizio intelligente, puntuale e, perché no?, tragico su quanto va buttato dagli ipermercati, dalle botteghe, dai ristoranti e dai centri cottura e distribuzione alimentare della nostra città.

Siccome sono particolarmente sensibile a questo problema che spesso è denunciato dalla stampa cattolica, ogni volta che vedo un titolo su questo argomento leggo con avidità l’articolo e provo rabbia. Questa volta la reazione è stata ancora più forte perché lo spreco denunciato non avviene in America, ma proprio a casa nostra.

Io credo d’aver fatto quanto era nelle mie possibilità per ottenere quello che avviene in tante altre città, però confesso di sentirmi sconfitto; tanto che mi sono ormai arreso senza condizioni.

Su questo argomento la storia è stata lunga e quanto mai tormentata. Sto mendicando un aiuto dall’assessore della sicurezza sociale del Comune di Venezia almeno da quindici, venti anni, da quando ho aperto la “bottega solidale” per la distribuzione dei generi alimentari per i poveri. Avendo letto poi quanto si è fatto a Bologna prima, ma poi a Milano, Verona, Vicenza, non c’è stato amministrazione comunale di Venezia che si sia succeduta in questo tempo a cui non abbia bussato la porta, perché il problema rimane sempre quello: le catene della distribuzione sono disponibili a concedere i viveri in scadenza solamente a patto che il Comune sia disponibile ad abbattere, almeno per un po’, la tassazione sui rifiuti.

Le società, per organizzare lo smaltimento dei generi in scadenza, devono sopportare un costo e, secondo la logica ferrea delle leggi di mercato, non sono disposte a sopportarlo se non lo recuperano con lo smaltimento dei rifiuti.

Con l’assessore Giuseppe Bortolussi pareva che questo processo si stesse avviando, senonché con l’assessore che gli è succeduto, il dottor Sandro Simionato, tutto s’è bloccato nonostante le mie suppliche. E si che costui è del PD, partito che a differenza del reazionario Berlusconi, afferma di essere aperto socialmente!

A questa insensibilità comunale si aggiunge quella della Caritas diocesana che dovrebbe essere l’organo che promuove la solidarietà nella Chiesa veneziana e che dovrebbe muoversi in questo settore come il rappresentante del Patriarca il quale, nella Chiesa, si dice sia il presidente della carità, ma che su questo fronte pare che essa sia assolutamente assente!

Al “don Vecchi” si aiutano quasi 3000 persone la settimana, però se ci fosse una qualche collaborazione da parte del Comune e della curia, potremmo fare cento volte di più.

Pierluigi mi ha deluso

Da sempre cerco di avere un rapporto umano con le persone che incontro, sia che le incontri personalmente, sia che “l’incontro” avvenga a mezzo stampa o televisione. Mi pare disumano e mortificante il formarsi di un “casellario” personale in cui collocare ogni individuo col quale si viene a conoscenza, inscrivendolo secondo il criterio della sua funzione sociale, dell’estrazione culturale o della scelta religiosa. Mi piace incontrare le persone nella loro calda umanità.

Faccio questa premessa facendo riferimento ad una mia “confidenza pubblica” di qualche tempo fa, quando scrissi che mi era spiaciuto che a Bersani fosse scoppiato in mano il sogno di diventare capo del governo – quando ne aveva avuto finalmente la tanto desiderata occasione – a causa del suo rifiuto radicale di accettare il “nemico” Berlusconi e mi era spiaciuto il suo umiliante tentativo di mendicare la collaborazione di Grillo, ricevendone invece un calcio in bocca.

Con Bersani non ho mai avuto motivi di amicizia, ma ultimamente mi era sembrato un brav’uomo e m’è spiaciuta la sua delusione e la sua sconfitta dopo che da una vita lottava per diventare presidente del consiglio. Però in questi giorni ho paura di dovermi ricredere per un motivo che non so quanti possano condividere, ma per uno come me che va al sodo e sogna il bene della nostra gente, è difficile proprio da capire e da accettare.

Vengo ai fatti: Letta, su spinta di Napolitano e soprattutto per il dramma tragico in cui vive l’Italia, è riuscito a mettere insieme centrodestra e centrosinistra. Pare che, tutto sommato, riesca a far convivere questi partiti che, alla fin fine, sono nati dalla stessa madre patria e sono della stessa famiglia. In Italia non so chi abbia inventato o che cosa abbia causato la formula nefasta che governo e opposizione debbano sempre litigare e scontrarsi, o meglio lo so bene: l’ambizione, l’egoismo, le poltrone, le carriere, il partito.

Ora non dovrebbe essere una situazione mal sopportata che finalmente dei “fratelli” della stessa famiglia facciano la pace e lavorino assieme. Dovrebbe essere sempre così. Signor no! Pierluigi intravede che potrebbe cacciare Berlusconi e i suoi col favorire una congiura di palazzo trescando con alcuni elementi di Grillo ed arrischia di creare una nuova crisi nella speranza di poter cavalcare questa nuova opportunità.

Caro Pierluigi, mi hai deluso! Ti avevo promesso un’Avemaria perché trovassi un po’ di pace, non ritiro la promessa, però sappi che per quella strada non si va da nessuna parte.

Contropelo

Nella Chiesa le proposte si susseguono con ritmi assai sostenuti. Specie quelli che sono gli “addetti ai lavori”, specialisti in teologia, in esegetica o semplicemente in pedagogia, elaborano piani, progetti ed iniziative di carattere pastorale a getto continuo. Io però ho spesso la sensazione che essi assomiglino ad un locomotore ultimo modello, elefante assai veloce che sfreccia sempre più rapido. Il guaio però è che mi sembra che i vagoni dei viaggiatori, come pure i carri merce – non so per quale motivo – si siano sganciati e rimangano fermi sulle rotaie, anzi rischino di retrocedere per forza d’inerzia.

Stiamo terminando “l’anno della fede”, ora non so quale altro aspetto del vivere cristiano sarà proposto al popolo di Dio, ma il grosso della Chiesa, nonostante le sottigliezze degli esperti e i loro artifici, rimane fermo, anzi talvolta ho l’impressione che retroceda constatando fatti concreti che sono sotto gli occhi di tutti: più della metà dei giovani non si sposano più in chiesa, i confessionali fanno le ragnatele, i bimbi non battezzati sono sempre più numerosi; per non parlare dei separati, dei divorziati, della morale per i fidanzati, gli sposati, che corre su un binario proprio, non certo quello proposto dalla catechesi. La partecipazione alla messa festiva non arriva al venti per cento dei battezzati ed altro ancora.

Nelle inchieste fatte fare dai giornali si viene a sapere che anche nel nostro Veneto, che è considerato la Vandea d’Italia, si fa sempre più strada una “religione fai da te”…., dove ognuno si costruisce dei principi, la morale che più gli aggrada. La religione ufficiale rimane ferma e immobile, mentre la religiosità del popolo sta orientandosi per conto proprio, accettando ancora, in maniera formale, i riti cristiani, vivendo come ad ognuno aggrada, orientandosi a vista, senza ribellioni e ammutinamenti di sorta, senza crisi interiori; comunque il divergere è sotto gli occhi di tutti. Non ci sono scismi o eresie, però si ha l’impressione che ormai siano sempre meno i fedeli che seguono “gli ufficiali”.

Già dissi in passato che secondo me bisognerebbe ripensare il tutto, proporre la sostanza con nuove modalità, anche perché il modo di vivere la fede oggi mi pare ben diverso da quello dei tempi delle prime comunità cristiane che avevano una religiosità ben più essenziale e meno sofisticata.

Io che non ho di certo le qualità del riformatore, per ora mi limito ad auspicare e pregare per chi potrebbe salvare l’essenziale e buttare a mare “la zavorra”.

“Come un cane in chiesa”

Ho terminato di leggere in questi giorni l’ultimo volume di don Andrea Gallo, il prete dei bassifondi di Genova morto solamente un paio di mesi fa.

A cominciare dal titolo “Come un cane in chiesa”, per continuare con la scelta di alcune pagine del Vangelo che don Gallo commenta ed attualizza, s’avverte immediatamente la volontà di questo prete di vivere l’autentica e genuina “rivoluzione” portata da Gesù e la libertà che questo sacerdote si ritaglia per dare credibilità al suo impegno di occuparsi degli ultimi: drogati, prostitute, transessuali, “rifiuti” della nostra società e della nostra Chiesa spesso perbenista.

Don Gallo, senza tante perifrasi e con poco garbo, afferma che i veri “poveri” del nostro mondo nelle nostre parrocchie hanno la stessa considerazione e lo stesso trattamento che noi usiamo verso i cani, quando per caso entrano in chiesa. A leggere poi tra le righe, ho avuto la sensazione che pure don Gallo si sia sentito riservare lo stesso trattamento, lui che aveva abbracciato senza riserve questi “rifiuti umani”.

Don Gallo sceglie lucidamente le pagine più innovative e più “rivoluzionarie” del Vangelo di Gesù e le commenta senza usare circonlocuzioni diplomatiche per dire quello che pensa, tanto che spesso, per i suoi commenti, usa parole pesanti come pietre, facendo si che il lettore senta mordere sulla carne viva il discorso e la proposta del Vangelo.

Il volume è uscito nel 2012, quindi può essere considerato il “testamento spirituale” di questo prete che oltre ad amare e servire i poveri, ha sempre tentato di ascoltare i margini di verità e di Vangelo che sono presenti anche negli intellettuali e negli uomini della fronda. Come vorrei poter fare anch’io un testamento del genere e come sognerei che tra le decine di migliaia di preti operanti nel nostro Paese ci fossero tanti don Gallo in più!

Si bella e perduta!

In quest’ultimo tempo sto seguendo con interesse crescente le vicende dell’erigendo Comune metropolitano. Il fatto che a Treviso e a Padova siano stati eletti due sindaci del PD, mi dà l’impressione che faciliti l’intesa con queste realtà tanto vicine ma tanto diverse. Ho l’impressione che le due città industriose, ben organizzate ed efficienti, si avviino verso un “matrimonio” con questa nobildonna della laguna tutta trine, merletti e profumi, tronfia della sua antica floridezza, ma ormai flaccida, pretenziosa e seduta su se stessa mentre si avvia verso una rapida e triste vecchiaia. Tanto che, pur essendo “cittadino veneziano” per diritto acquisito, mi vien da pensare “povera Padova! Povera Treviso! Non sapete proprio chi vi accingete a portarvi a casa! Venezia, nobile si, ma senza quattrini e senza senno!”.

Questi pensieri mi nascono leggendo ogni giorno qualche intervento sul Gazzettino su due realtà che potrebbero dare un po’ di ossigeno a questa città che ormai cade a pezzi da un punto di vista organizzativo, edilizio ed economico.

Nonostante i tanti proventi da quel mercimonio che è il casinò, Venezia ha un bilancio rattoppato che non so come la Corte dei Conti lasci passare. Il primo motivo di preoccupazione è che un giorno fa un passo avanti e il giorno dopo due indietro come i gamberi perché il comitato di nobildonne, il club dei perditempo, quello dei romantici e quell’altro dei dissennati si oppongono perché per loro Venezia deve vivere di paesaggi e di terre perse e non vogliono il grattacielo di Cardin, i suoi seimila posti di lavoro e quant’altro!

Il secondo è quello delle grandi navi. Pare che ai veneziani schifiltosi e pieni di sussiego non piacciano i dollari e i rubli o le pesetas che questi grattacieli del mare versano a cascata nei ristoranti, nelle botteghe e quant’altro di Venezia. Loro vogliono dormire in pace e che lo Stato e il contado li mantenga, perché loro rappresentano il patriziato e non vogliono che le navi intralcino le gondole in bacino San Marco.

L’amministrazione poi pare che abbia delegato quel fior fiore di giovani dei centri sociali a far capire che Venezia non gradisce il denaro dei capitalisti americani, cinesi, indiani o brasiliani e probabilmente finanzia sottobanco il loro arrembaggio.

Mestre purtroppo è legata a filo doppio a questo carrozzone, ma Padova e Treviso non so proprio perché si avviino a queste nozze che si preannunciano, ancor prima della celebrazione, così fallimentari. Sono disperato e col poeta non mi resta che dire: «Mia cara Venezia, si bella e perduta!».

“L’adescatrice”

Qualche domenica fa il ciclo triennale della liturgia prevedeva la presentazione della pagina di san Luca che descrive il perdono di Gesù a Maria di Magdala, avvenuto durante un pranzo nella casa di un certo fariseo di nome Simone.

La lettura di questo brano, che inquadra la conversione di quella splendida figura che è la Maddalena, del modo con cui “si confessa”, chiede perdono ed è “assolta” da Gesù, mi ha sempre coinvolto e profondamente impressionato. La conversione a vita nuova e migliore di una creatura, è sempre un fatto meraviglioso che conforta, apre il cuore alla speranza e sprona a fare altrettanto per recuperare quella pulizia interiore che rimane per tutti un sogno ed una speranza di redenzione.

La riflessione su questa pagina del Vangelo ha ridestato nel mio animo un ricordo particolare legato a questo episodio. Tra i tanti amici che contavo un tempo tra gli artisti, c’era pure un pittore di talento, il triestino Roberto Joos, che faceva il giornalista al Gazzettino, ma che amava la tavolozza ben più delle pagine del nostro quotidiano. Joos mi propose di dipingere un quadro per la chiesa; al mio assenso mi chiese che personaggio o che “mistero” del Vangelo desiderassi che dipingesse. Sapendo che un artista riesce meglio quando affronta un tema che “sente”, lasciai a lui la scelta. Roberto scelse “La Maddalena” e la dipinse nell’atto in cui lascia il suo vecchio mondo sporco e guasto e, con uno sforzo quasi disperato, si aggrappa alle ginocchia di Gesù, quasi ad uno scoglio di salvezza.

La Maddalena di Carpenedo ha ancora addosso gli abiti del suo “mestiere”. Il quadro di Joos è veramente un bel quadro intenso e ricco di messaggio. Però, dopo che l’appesi alla parete, venne da me un vecchio superpraticante che mi chiese: «Che cosa, parroco, ha appeso alla parete della chiesa?». Gli risposi, un po’ compiaciuto: «Santa Maria Maddalena!». «Macché santa, quella è un’adescatrice che può rovinare la gioventù che viene in chiesa!».

Approfittai di questo ricordo per affermare con convinzione nell’omelia che il perbenismo dei farisei, che praticano formalmente tutte le novene e le tredicine, ma non sanno che cosa sia compassione, fiducia e possibilità di redenzione, non è per nulla scomparso dopo due millenni di storia cristiana.

M’è parso, alla fine della predica, che una gran parte dei fedeli, pensando ai fatti della loro vita, abbiano tirato un sospiro di sollievo e spero che siano meno perentori nel pronunciare condanne inappellabili.

Sant’Antonio a Ca’ Solaro

Io finisco sempre per innamorarmi delle cose che faccio. L’ultimo “amore” è il borgo di Ca’ Solaro. Il fatto che una piccola comunità immersa nel verde della nostra campagna non si sia rassegnata a vivere senza prete e senza momenti religiosi comunitari, è qualcosa che mi tocca profondamente.

Io mi reco a Ca’ Solaro una volta al mese, il primo venerdì. Di questo piccolo borgo mi piace un po’ tutto: la chiesetta pulita e ordinata, il signor Papa che funge da “diacono” e da punto di riferimento per le funzioni religiose, i fiori colti nel campo che trovo freschi sull’altare per la messa, le tovaglie bianche e lavate da poco, le signore che leggono i passi della sacra scrittura e cantano come se tutto il mondo le stesse ad ascoltare, e la piccola comunità di una trentina di persone – donne, anziani e qualche giovane – che ogni mese si presenta puntualmente senza bisogno che suoni la campana, visto che ora è a riposo perché si è rotto il castelletto. E poi mi piace quel clima familiare e discreto che incontro ogni volta, che mi offre un senso di intimità e di famiglia.

Il giorno di Sant’Antonio poi c’è stato quasi un pontificale: ha celebrato il parroco, don Michele, ed io ho fatto da assistente. Il coro, formato da elementi di San Pietro Orseolo, di Favaro e di Ca’ Solaro, ha animato la messa, la chiesa si è riempita come non mai di parrocchiani di Ca’ Solaro e di oriundi.

Dopo la messa il rinfresco sul sagrato con dolci fatti dalle donne del paese e vini dei vigneti di questa campagna fertile e generosa. Ho ritrovato finalmente il clima dei tempi andati, quando il mio vecchio parroco mi portava come chierichetto nelle frazioni del mio paese natio per la celebrazione della santa messa.

Le parrocchie della città, almeno quelle che io conosco e frequento, sono belle, efficienti ed animate, ma a Ca’ Solaro trovo qualcosa di più caro; sembra proprio una comunità al naturale per la cordialità, il clima affettuoso e semplice, una religiosità elementare e genuina, senza fronzoli e sofisticazioni. Ringrazio ogni volta il buon Dio che mi riporta alle esperienze lontane che hanno maturato la mia fede e la mia vocazione.

Integrismo

Come non posso seguire con attenzione e preoccupazione emotiva la vicenda di una comunità in cui ho vissuto i miei migliori 35 anni di vita e alla quale ho dedicato ogni mia risorsa?

Al mercoledì esce “Lettera aperta”, il periodico che ho fondato nell’ottobre del 1971, una settimana dopo aver “preso possesso” della parrocchia.

A Carpenedo la contestazione del ’68 giunse un po’ in ritardo, era la coda di quel fenomeno così radicale, da un lato devastante e dall’altro purificatore, della società e della Chiesa in tutte le sue articolazioni. Sapevo che in parrocchia era forte e gagliardo il vento di contestazione, soprattutto tra i giovani, e sapevo pure che qualcuno aveva sparso la voce che io ero un conservatore. Presi “il diavolo per le corna” e nella prima predica dissi chiaramente e con forza che io ero della Chiesa di Paolo sesto, il pontefice “regnante” d’allora.

Il giorno dopo una delegazione di giovani che aveva capito fin troppo bene l’antifona, venne a chiedere di trasformare la messa delle 10 in assemblea pubblica per dibattere i problemi della parrocchia. Rifiutai e fu guerra, una guerra per cui mi dissero che se anche mi avessero sparato l’avrebbero fatto per il bene della comunità e se io avessi costruito il patronato, essi l’avrebbero distrutto. Capii immediatamente che dovevo crearmi uno strumento per parlare alla comunità ed oppormi a certe tesi che giudicavo pericolose.

La domenica dopo usciva il primo numero di “Lettera aperta” col sottotitolo: “Settimanale con il quale il parroco parla alla comunità”.

“Lettera aperta” fece fortuna e si impose all’attenzione non solo della parrocchia, ma della città e i sessantottini di Carpenedo si dissolsero presto come neve al sole.

Don Gianni, il parroco attuale, pure lui tiene ben stretto nelle sue mani il periodico, ma lo fa con stile diverso, di certo meno polemico e meno angoloso del mio. Il pensiero corrente e l’opinione pubblica è ora molto diversa da quella del mio tempo.

Qualche settimana fa però, egli pubblicò un corsivo di una parrocchiana, a mio avviso integrista, amaro e sprezzante. Non riuscii a capire perché l’avesse pubblicato. La settimana dopo però don Gianni è intervenuto personalmente per ridimensionare l’intervento precedente che rappresentava lo scontro, oltre che fra la generazione al tramonto e quella all’aurora, tra modi di pensare estremamente diversi, anzi contrapposti. La settimana successiva ancora, forse per bilanciare le tesi contrapposte, il giovane parroco pubblicò un altro intervento di un giovane, di stile e contenuto, anche se più articolato e motivato, pure sferzante e, a mio parere, integrista.

Questo “dialogo” m’è parso né bello né costruttivo. Una volta ancora constato che l’integralismo genera altro integralismo di segno opposto. Queste cose succedono però anche in tutte le “migliori famiglie”. Mi auguro che il tutto sia segno di vitalità e di partecipazione al dibattito assai vivo nel Paese a questo proposito.

I miracoli della sagra

Sono ormai passati quasi dieci anni da quando sono uscito dalla parrocchia. Tante cose sono cambiate, comunque sono molte ancora le “vestigia” del vecchio mondo che ho lasciato; vestigia rimaste non come “magnifiche rovine”, ma come “piante” quanto mai cresciute e frondose.

In occasione della sagra, che festeggia quest’anno i ventun anni dalla nascita, m’è venuta voglia di visitare il padiglione nel quale è stata allestita una mostra fotografica che documenta l’impegno della comunità a favore del terzo mondo: India, Filippine ed Africa.

Ho incontrato alcuni veterani di quello splendido gruppo che ha realizzato delle opere imponenti e straordinarie e che ha continuato ad estendersi sia dal punto di vista geografico nel soccorso ai poveri del terzo mondo, che da quello del numero dei soccorritori.

Ho chiesto a Gianni Scarpa, veterano del gruppo e uno dei “padri fondatori” del gruppo per il terzo mondo di Carpenedo, quante siano attualmente le adozioni a distanza. Mi ha risposto che le adozioni a distanza in atto sono circa tremila, poi mi ha mostrato con legittimo orgoglio, misto a vera commozione, il primo ragazzino indiano che Edy, sua moglie, e lui, hanno adottato vent’anni fa, ora laureato e docente universitario.

Ho continuato a scorrere rapidamente le moltissime fotografie disposte in quell’ordine perfetto e pignolo che è proprio di Gianni. Ho rivisto il grande dormitorio annesso al college, costato 80 milioni di lire, costruito in India mentre ero ancora parroco, e le cucine, i pozzi, le scuole, le tante costruzioni che ora non si contano più.

Visitata la mostra m’è venuta voglia di fare quattro passi nel terreno della sagra tra i padiglioni, i giochi per i bambini, la piattaforma per il ballo, le cucine e mille altre cose ancora. Erano le 18,30 e c’era già una lunga fila in coda per prenotare la cena e un profumo quanto mai invitante di crosticine. M’è parso tutto tanto grande, tanto complicato, con tanti operatori, molti dei quali li ricordavo, ma tanti altri m’erano del tutto sconosciuti. Mi son sentito quasi smarrito in quella confusione festosa, tanto da chiedermi se io sarei mai capace di mandare avanti una “baracca” così imponente e complessa.

Poi, d’istinto, riandai alla radice di quella “quercia” tanto solida e fronzuta, al motivo che mi aveva spinto vent’anni fa a piantare il piccolo “seme di sagra”. La comunità, a quel tempo, era nettamente spaccata in due: da una parte la chiesa, dall’altra il bar della piazza e la sede del PCI in via Ligabue. Ognuno aveva i suoi fedeli, ognuno, pur battezzato, credente e sposato in chiesa, camminava per la sua strada. Quelli del prete e quelli della piazza, due binari nati con la fine dell’ultima guerra. Le salsicce ai ferri, la piattaforma e la pesca fecero “il miracolo”. Si, la sagra ha fatto il miracolo che tutti si ritrovassero assieme per alcuni giorni di festa e di cordialità.

Tornando al “don Vecchi”, un po’ stordito per quel “marchingegno” così complesso ed animato, mi son detto: «Spero proprio che la sagra continui a far miracoli!».

Finalmente le ruspe!

Non vorrei dar troppe informazioni sui tragitti che sono solito percorrere, perché a qualcuno, a cui spesso rompo le scatole, non venga in mente di metterci l’esplosivo come a Capaci! Per fortuna l’essere un povero diavolo che si permette di fare solamente qualche “denuncia”, da un lato non scuote granché la nostra società sonnolenta, che continua a dormicchiare e a pensare ai fatti suoi, dall’altro lato oggi non mette affatto in pericolo la mia vita.

Mi reco due volte a portare la buona stampa in ospedale. Ormai da oltre un paio d’anni non sono più impegnato nella pastorale diretta dell’ospedale, ma credo che non ci sia degente ed assistente medico o impiegato che non conosca le mie idee e i miei messaggi.

Due volte la settimana porto dunque, assieme a suor Teresa, una tonnellata di buona stampa, “L’Incontro”, “Il sole sul nuovo giorno”, “Il libro delle preghiere” che regolarmente volontari generosi distribuiscono ai degenti e i parenti prendono dagli espositori.

Penso che da anni alcun operatore pastorale abbia la gioia di offrire “la buona notizia” al migliaio e più di persone che ruotano, per un motivo o per l’altro, attorno all'”Angelo”.

Dopo aver deposto la stampa nei luoghi strategici, ritorno al “don Vecchi” per la nuova grande strada che gira alle spalle dell’ospedale per andare a congiungersi al Terraglio nei pressi di Villa Salus.

L’altro ieri, alla seconda rotonda – quella che è di fronte al MacDonald, girai lo sguardo dalla parte opposta e vidi finalmente una gran ruspa che asportava la terra per far posto al sedime della strada che congiungerà questa rotatoria al Villaggio solidale degli Arzeroni del quale farà parte il “don Vecchi 5”.

Credo che Mosè, alla vista della Terra Promessa, non sia stato più felice di me. E’ vero che Mosè impiegò 40 anni per arrivare alla terra promessagli dal buon Dio, mentre io e gli amici della Fondazione ce ne abbiamo messi soltanto tre, ma quanti ostacoli, quanta fatica!

Le ruspe dovranno spostare l’equivalente di cento camion di terra per creare il sedime e portarne altri cento per riempirlo di ghiaione, comunque “il dado è tratto”, come disse Cesare quando passò il Rubicone; ora non si tratta che di proseguire, sperando che il Signore ce la mandi buona.

Intanto confesso che mai mi sono accorto di quant’è bella una ruspa, che con quelle sue mani dalle lunghe unghie solleva la terra. Grazie Signore, per nostra sorella ruspa!

I soldati di ventura

Quante volte, soprattutto quando ero a Venezia, non ho ammirato in campo dei santi Giovanni e Paolo, la possente statua equestre del Colleoni. Quel campo di Venezia ha, a nord, quello splendido ricamo della facciata del convento dei domenicani che è diventato, con i secoli, la sede scomoda dell’ospedale civile. A destra la splendida facciata della chiesa dei santi Giovanni e Paolo, la chiesa più grande di Venezia ove i domenicani, ordine dei predicatori, parlavano alle folle di fedeli. Al centro il monumento al Colleoni, il celebre condottiero, capitano di ventura, che ha “lavorato” per molti anni ed ha ben meritato presso la Serenissima.

Io che sono cresciuto durante il fascismo e sono stato educato all’amor patrio, ho sempre provato un senso di repulsione per questi soldati di ventura che si mettevano al servizio di qualcuno e combattevano non spinti da amor di Patria, ma dagli ingaggi assai generosi. Nutro pure un sommo rispetto per i nostri soldati di professione che si offrono come volontari di pace, di libertà o di democrazia e partono per tutti gli angoli del mondo dove questi valori sono minacciati, ma sempre mi sorge il dubbio che i diecimila euro al mese di ingaggio siano forse più determinanti che quegli alti ideali che spesso fungono da paravento ipocrita.

Passi per i nostri “volontari” che partono in “missioni di pace” armati fino ai denti, però quello che mi è ancor più difficile capire ed accettare sono altri “soldati di ventura”, ossia i giovani dei centri sociali e perfino uomini che incutono soggezione per le loro pretese di promuovere libertà, giustizia e democrazia, mentre sono super addestrati per combattere la polizia, per bruciare automobili, rompere le vetrine dei negozi, per lanciare bombe Molotov e per disselciare le strade.

Questi soldati di ventura sono onnipresenti ove c’è una qualche opportunità di menar le mani. Ricordo le loro epiche imprese per il G8 di Genova, contro la base Del Molin a Vicenza, la TAV in val di Susa, in bacino san Marco contro le grandi navi, a Roma, Napoli, Taranto….

La magistratura pare abbia un occhio di riguardo perché le loro devastazioni non sono solo devastazioni, ma “devastazioni politiche”.

Ricordo quel povero carabiniere che si è difeso per non essere bruciato vivo nel suo mezzo e, purtroppo, avendo fatto partire un colpo, ha ucciso il suo assalitore: lui è diventato un criminale per una certa parte politica, mentre l’assalitore, nuovo “soldato di ventura”, un eroe!

Ogni volta che passo per campo san Giovanni e Paolo e vedo il monumento al Colleoni, temo che prima o poi si edifichi in piazza san Marco un monumento a Casarin che è pure un condottiero dei “soldati di ventura” dei nostri giorni.