Ammettere le proprie debolezze

Quando i giornali hanno parlato del corvo nero che sta gracchiando in Vaticano, mi sono detto: “Ci mancava anche questa!”. Non so se siano i corvi i volatili che si nutrono delle carogne, comunque il corvo che ha cominciato a farsi udire dai palazzi di ciò che rimane dello Stato pontificio, di sicuro vive di marciume.

Vedere il nostro vecchio Papa sempre più fragile, piangere sui preti pedofili ed ora sentirlo anche tradito dalle persone che gli stanno più vicine e che dovrebbero collaborare per rendere la Chiesa più bella e più fedele al messaggio di Gesù, intuire che lo IOR, la banca del Vaticano, continua probabilmente ad intrallazzare come ai tempi di Marcincus, è un qualcosa che amareggia tutti i cristiani e che rende ancor più pesanti le chiavi di Pietro.

Non bastasse questo, in questi giorni è scoppiato pure lo scandalo di Villareggia, la promettente comunità missionaria nata una ventina di anni fa nel Chioggiotto e sviluppatasi in maniera portentosa. Povero Papa! Povera Chiesa!

Questa volta la piena ammissione della fragilità dei componenti di questa comunità e gli immediati provvedimenti per curare la ferita, sono stati, pur nella tristezza, un modo nuovo e più nobile di presentarli alla comprensione del mondo. Ammettere finalmente le proprie debolezze è un costume nuovo nella Chiesa, che spesso nel passato ha giudicato in maniera spietata gli altri, ora l’ammissione delle sue miserie che la rende più umana, più vera e più credibile.

Io partecipo fino in fondo al disagio, al dolore, alla richiesta di perdono da parte del Papa e di ogni cristiano, ed assieme a loro chiedo scusa ai fratelli e al mondo intero per questo scandalo che sporca il volto di Cristo. Però mi viene da dire: “Felice colpa! Che ci fa prendere coscienza della nostra povertà, ci rende tutti più umili e più comprensivi verso le miserie degli altri e più fiduciosi nella misericordia di Dio”.

Una volta ancora mi pongo un annoso problema che mi pare non ancora sufficientemente affrontato, almeno nella Chiesa cattolica: cioè non esiste solamente il sesto comandamento, ma ce ne sono dieci! Credo che nella confessione e nel pentimento dovremmo aggiungere pure altri peccati ecclesiastici che riguardano i preti in carriera, quelli con poco zelo, quelli che si pavoneggiano con vesti e con titoli, quelli che non si impegnano con i poveri, quelli che non si aprono al dialogo, quelli che non sono impegnati nella ricerca della verità, quelli che si accontentano di essere degli stipendiati dall’Ente Chiesa piuttosto che tendere ad essere testimoni e profeti di Cristo in questo nostro mondo.

Confesso che io temo che spesso non si prendano sempre in considerazione peccati diversi e non meno gravi di quelli della carne.

La sinistra di Dio che dona speranza

Temo, anzi sono certo, che talvolta mi ripeto. Non dovrei neppure essere tanto preoccupato perché quello della ripetitività è un difetto comune a tutti gli anziani. Il guaio è poi che non mi ricordo neppure se una certa esperienza l’ho già detta o no, motivo per cui mi riesce pressoché impossibile accorgermi quando mi capita questo inconveniente senile.

Ho però qualche motivo per rasserenarmi. Infatti per tanti anni sono vissuto accanto a monsignor Aldo Da Villa, che fu mio parroco a San Lorenzo. Un magnifico prete!

Monsignore, in giovinezza, aveva fatto il cappellano militare in Libia; per lui quella fu un’esperienza forte, tanto che spesso ci raccontava episodi della sua guerra. Io l’ascoltavo sempre volentieri perché era un ottimo narratore, ma don Giancarlo, mio collega più giovane e più garibaldino, spesso alzando la mano, faceva cenno con le dita, due, tre, quattro: tante erano le volte che aveva sentito la stessa storia.

Ebbene io mi lascio andare ad una mia esperienza con relativa applicazione, sperando che nessuno alzi la mano.

Ho visto un film, tanti anni fa, una pellicola un po’ scontata e a tema: un pilota americano, colpito, è costretto a gettarsi col paracadute in territorio nemico (mi pare un Paese asiatico). Per sfuggire alla cattura non trova di meglio che indossare la tonaca da prete e presentarsi ad una piccola comunità che era priva di sacerdote. Il pilota fa così bene la parte del prete che l’intero villaggio rifiorisce a vita religiosa. La dottrina del film voleva dimostrare che Dio adopera bene anche la “mano sinistra”, cioè salva anche non usando le forme consuete e non consacrate.

Oggi ho quasi l’impressione che il buon Dio usi soprattutto la sinistra, piuttosto che la mano destra. A darmi questa sensazione sono stati molti scandali e manchevolezze commesse dalla “mano destra”, mentre fortunatamente ci sono cose belle fatte da uomini e strumenti “non addetti” formalmente a questo compito.

Ultimamente ho letto su “Nostro tempo” una bellissima testimonianza di una giornalista milanese del mondo cattolico, Mariapia Bonanate, che ha trovato la forza di assistere il marito colpito da una gravissima malattia, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore, meditando “Il diario” di Etty Hillesun, ebrea olandese, morta in un Lager nazista.

Questa creatura, dai costumi inizialmente abbastanza disinvolti, ritorna a Dio scegliendo di condividere il dramma della sua gente e, pur nella desolazione e nella bufera più nera del lager nazista, trova fiducia e coraggio ammirando un gelsomino che fa spandere i suoi fiori bianchi e profumati nonostante il mondo le stia cadendo addosso.

Talvolta la sinistra di Dio è così dolce e rasserenante per cui posso attendere il Signore su ogni strada e dalle persone che meno immaginavo potessero offrire l’amore del Padre.

La pastorale del mondo dell’arte

Stavo cercando l’indirizzo di un mio confratello che la curia ha incaricato di occuparsi dei beni di valore artistico della Chiesa veneziana, sperando che sia pure delegato ad occuparsi della pastorale del mondo dell’arte.

Io sono appassionato di tutto quello che esprime armonia e bellezza, convinto più che mai che la “bellezza” sia una strada che porta a Dio. Nella mia vita ho cercato con tutte le mie risorse di portare nella mia comunità questo “raggio di Dio” così dolce e suadente.
La galleria “La Cella”, con le sue 400 mostre, la biennale di arte sacra e lo sterminato numero di quadri con i quali ho ornato le pareti delle strutture della comunità, sono una testimonianza di questa mia convinzione.

Ora sto continuando questo servizio pastorale con l’apertura della galleria “San Valentino”, presso il Centro don Vecchi di Marghera, ma sto incontrando notevoli difficoltà.

Consultando il Prontuario della diocesi per la ricerca dell’indirizzo dell’architetto don Caputo, mi sono lasciato prendere dal desiderio di scoprire il meccanismo estremamente complesso della nostra diocesi: nomi, strutture, commissioni, incarichi, deleghe, organismi… Ogni volta che consulto questo volume che la curia cura con estrema pignoleria e stampa puntualmente ogni anno, da un lato mi sento orgoglioso di appartenere ad una Chiesa che abbraccia ogni ambito, pensa e provvede ad ogni aspetto della vita di tutti i suoi membri, dispone di un numero straordinario di collaboratori specialisti in ogni settore – tanto che non potrei desiderare qualcosa di meglio – dall’altro lato resto pensoso sulle ricadute reali di aiuto che questa organizzazione offre ai combattenti della prima linea.

Il settore della cura pastorale di quello splendido mondo degli artisti e della loro produzione, forse non sarà il punto focale della pastorale diocesana, ma neppure può essere abbandonato a se stesso perché non cresca incolto come l’orto di Renzo Tramaglino di venerata memoria.

Constatando come a Mestre e nell’interland, con una popolazione di duecentomila anime non vedo quasi nulla in proposito, spero che la mia richiesta di aiuto trovi una risposta finalmente esauriente.

Pensieri per uno dei “miei ragazzi” di un tempo

Ho ripetuto che i “miei ragazzi” e i fedeli di cui mi sono occupato, li “scopro” ogni giorno su tutte le sponde della vita, con risultati diversi e valori persino opposti. Talvolta gioisco perché mi pare che il risultato dei miei sforzi sia stato veramente positivo, talaltra invece mi amareggio constatando che, almeno da un punto di vista superficiale, posso osservare solamente frutti stantii e striminziti, foglie o, peggio ancora, alberi scheletrici apparentemente senza vita, ed infine rovi.

Ricordo che qualche mese fa ho incontrato una signora di mezza età che mi ha salutato con calore e familiarità e quando s’accorse che io cercavo con un certo affanno, di ricordarmi dove l’avevo incontrata, mi disse pronta: «Non si ricorda, don Armando, che è stato lei a sposarmi?». Non ricordavo affatto, perché altro è incontrare una ragazza nel fiore degli anni, ebbra del suo amore, altro è incontrare per caso in strada una donna di mezza età un po’ sfiorita!

Soggiunsi, riferendomi alle sue nozze: «Com’è andata?». «Bene, mi rispose, sono felicemente divorziata!». Rimasi di stucco! pensando alle parole cariche di letizia, di promesse e di speranze che di certo le avevo rivolto il giorno delle sue nozze. Non tutte le ciambelle mi sono riuscite col buco, anzi!

In questi ultimi mesi sto tribolando, angustiandomi e pregando per uno dei “miei ragazzi” finito in carcere. Al pensiero di saperlo dietro le sbarre, lontano da casa, disonorato dai giornali, il mio cuore piange veramente. Mi pare impossibile, eppure è avvenuto.

In questi ultimi tempi ho letto una storia che mi ha fatto pensare: un galeotto, condannato a morte per un grave delitto, in carcere si converte, tanto che la Chiesa lo sta portando sugli altari.

Spero che comunque la triste ed amara esperienza aiuti il mio ragazzo a ripensare alla sua vita, a ciò che conta, che gli faccia comprendere che la serenità non viene dal successo, dal denaro e dall’affermarsi comunque, ma da quei valori che il suo vecchio prete senza carriera, ha tentato di passargli nel tempo della sua adolescenza.

Ora però soffro, prego e spero per lui e per i suoi cari. Che Dio mi ascolti!

Il cortile dei gentili

Spesso mi sento un po’ mortificato quando incontro qualcuno che ha una bella intelligenza ed una cultura solida, e fa dei ragionamenti che fatico a comprendere fino in fondo.

Mi sono detto più volte, nel passato, che volevo accettare lucidamente e serenamente, la mia condizione di semplice “manovale”, per quanto riguarda la vera teologia, non quella “in commercio”, fatta ad uso e consumo di chi s’accontenta di tutto. Questa scelta, fatta più per necessità che per libera determinazione, vale pure per altri campi per me pressoché sconosciuti, come la filosofia, l’economia, il settore scientifico e perfino la politica.

Quando però incontro qualcuno che esplicita con lucidità, competenza e logica rigorosa qualche verità che avevo confusamente intuito e che però era rimasta nella nebbia dei miei limiti, allora provo un senso di sollievo perché avverto struggente il bisogno di conoscere, di far chiarezza, soprattutto sulle tematiche inerenti la fede e la religione, perché non vorrei mai spendermi per qualcosa che non è vero e non mi appaga totalmente. In questi casi fatico e mi arrampico per capire, ma talvolta rimango a mezza strada intuendo che, pur desiderando la verità, essa mi sfugge e non riesco ad approdarvi completamente.

Qualche tempo fa s’è rinnovato questo mio stato d’animo seguendo alla televisione una lezione del cardinal Ravasi, che è un po’ il “ministro della cultura” nell’organico del Vaticano. Questo sacerdote milanese è un uomo di una vasta e profonda cultura biblica e teologica ed ha per me il grandissimo pregio di coniugare il suo sapere con la cultura laica più aggiornata.

Nella trasmissione si illustrava la sua iniziativa religioso-culturale, denominata “Il cortile dei gentili”, denominazione derivata dalla storia di Israele che ci ricorda che nel cortile del tempio di Gerusalemme c’era la possibilità che vi potessero stare anche i “gentili”, ossia i non credenti nel Dio di Abramo.

Ravasi immagina e dà vita a questo luogo ideale nel quale il pensiero cristiano si può confrontare e dialogare anche col pensiero dei non – almeno formalmente – credenti.

Mi pare di aver capito, ascoltando gli interventi dei relatori di primo piano, di culture diverse, che la distinzione tra il pensiero cristiano e quello delle altre culture, tra credente e non credente è assolutamente labile. Mi è parso di cogliere non solamente la bellezza della gente che cerca la verità senza pregiudizi e preconcetti, nel comune desiderio di scoprire la “verità assoluta”, ma soprattutto mi pare di aver intuito che nel punto più avanzato del pensiero umano, ci sono delle convergenze estremamente rilevanti.

Per me tutto questo è semplicemente meraviglioso perché mi fa felice che il volto dell’Assoluto risulti affascinante per tutti gli uomini, soprattutto per quelli del nostro tempo.

La Chiesa e l’apparato

Ho l’impressione che la stampa laica sia perfino troppo buona nel commentare ciò che sta avvenendo in Vaticano con la fuga delle notizie riservate e la cacciata del responsabile della banca relativa. Hanno un bel da fare padre Lombardi e il cardinal Bertone nel tentare di coprire con abbondanti foglie di fico le vergogne di questo staterello sopravvissuto alle logiche della storia e mantenuto in vita quasi a solo scopo folkloristico.

Mio fratello don Roberto, con parole veramente intelligenti e cristiane, ha scritto che la sua fede non rimane neppure scalfita da questi scandali, perché la Chiesa che ama e che vuol servire è tutt’altra cosa dal cartoccio storico che la avvolge a Roma. Anche per me è la stessa cosa. Voglio aggiungere che oggi l’amo ancor più di prima, quando credevo che tutto fosse bello, pulito e santo.

Detto questo però, per onestà, credo di dover aggiungere che anch’io sono tra quelli che desiderano portare una corona di alloro a porta Pia in ricordo e ad onore dei bersaglieri dei quali lo Spirito Santo si è servito per abbattere uno Stato antistorico e antievangelico che è sopravvissuto per troppo tempo.

Credo che farei più fatica a sognare la mia Chiesa umile, bella e libera dagli intrighi della politica e della finanza, se quelle mura non fossero cadute. Penso inoltre – e credo che questo pensiero e questo sogno non siano una colpa, ma un merito – che se qualcuno si desse da fare per smantellare quello che è rimasto di quello Stato, non della Chiesa, ma dell’apparato che crede di esserne l’ostensorio, gli si dovrebbe offrire una seconda corona.

Per me rappresentano nella memoria più autentica la comunità di Gesù i santi, i martiri, i profeti; non le porpore, i nunzi apostolici, lo IOR ed anche la scenografia, spesso troppo ampollosa, che pretende di essere la cornice dorata per offrire alle genti del nostro tempo il volto santo di Gesù.

Io ho speso la vita per la mia Chiesa, sono felice e lo rifarei, perché l’amo e voglio servirla con fedeltà ed amore, ma sono convinto che essa si farà più facilmente comprendere ed amare “vestita in grembiule”, piuttosto che con le vesti regali che erano proprie dei tempi passati definitivamente.

Il cammino di semplificazione e purificazione è in atto da tempo, ricordo ai tempi della mia giovinezza: le guardie nobili, i flabelli, il corpo militare pontificio, il triregno, la portantina. E credo che stia andando avanti in questa “liberazione” anche attraverso l’aiuto del “corvo” attuale, e così, a pari passo, come sono più belle e più evangeliche le persone degli ultimi papi, così diventerà più bello ed accettabile il loro “regno” che non è di questo mondo!

Il mio rifiuto della guerra e degli eserciti è sempre più forte!

Sono perfettamente consapevole che quanto sto sognando in questo momento della mia vita non si realizzerà mai, tuttavia sento impellente e profondo il dovere morale di battermi per questa causa. Mi è di conforto la lettura della parabola del “granello di senape” che la Chiesa ha offerto alla meditazione delle comunità cristiane qualche settimana fa.

Più volte ho confidato ai miei amici che provo malinconia al vedere tanti uomini in armi con tante medaglie e nastrini sulla giacca, quasi fossero tutti degli eroi verso i quali la società dovrebbe inchinarsi ed essere grata.

Mi indigna il fatto che lo Stato continui a spendere somme enormi per pagare tanti soldati che non fanno letteralmente nulla e che se fossero utilizzati per lo scopo per cui sono stati assunti e pagati provocherebbero solamente morte e rovina. Mi parrebbe la cosa più giusta e più saggia vendere come ferrovecchio tutto l’armamentario di morte dell’esercito ed impiegare gli uomini e il denaro risparmiati per cause più nobili e più civili.

In questi giorni poi ho visto delle immagini e letto dei fatti che hanno esasperato ulteriormente il mio rifiuto delle armi e della forza militare come strumento per risolvere i problemi che insorgono tra i diversi paesi; la forza non è mai una ragione da mettere sul tavolo, ma solamente un segno di prepotenza e di nessuna fiducia nella ragione.

Ho visto i prigionieri iracheni nudi in carcere, tenuti al guinzaglio come cani e torturati brutalmente dai soldati americani; ho visto pure prigionieri afgani sotto il sole cocente, sbeffeggiati, trattati peggio delle bestie. Ho letto di un seminarista tedesco, il cui comandante, con la pistola puntata, gli intimava di abbattere due “nemici”. Ho visto soldati tedeschi e russi costringere “il nemico” a scavare la fossa e poi collocarli sull’orlo perché vi cadessero dentro una volta colpiti a morte dai loro fucili.

Ho visto ancora tremila soldati italiani, nell’isola di Cefalonia, fatti fuori dai tedeschi con le mitragliatrici perché “traditori”.

Ho il cuore pieno di queste immagini e voglio che rimanga così perché il mio rifiuto alla guerra, ai soldati, rimanga sempre più forte.

Un tempo vedevo le guardie svizzere con simpatia e curiosità, da un punto di vista estetico, per le loro armature e le loro divise, oggi rifiuto persino queste!

So che il mio rifiuto appare ed è ancora più piccolo del “granello di senape”, ma voglio sperare che un giorno esso diventi l’albero in cui possono nidificare gli uccelli liberi e felici che danzano da mane a sera nel cielo di Dio.

Guareschi e la gente dell’Emilia

Mi è capitato recentemente di leggere su “Avvenire” un’intervista al figlio di Giovanni Guareschi. Io so poco della famiglia di questo grande narratore del nostro tempo, che nei suoi racconti ha dato volto all’Italia dell’immediato dopoguerra con uno stile e delle immagini quanto mai vive e convincenti. Non conosco neppure troppo le vicende personali dello scrittore romagnolo; so che trascorse parte della sua giovinezza in un Lager della Germania e che, ritornato in patria, diede vita ad un periodico, trascorse perfino del tempo in prigione per un presunto falso documento riguardante la condotta di De Gasperi.

Conosco invece bene la produzione letteraria di questo scrittore piacevolissimo, sornione e capace di dar volto alla mentalità, alle debolezze e alla ricchezza umana della nostra gente.

I racconti di Guareschi sono quanto mai conosciuti ed apprezzati da chi ha vissuto quel particolare periodo storico, anche perché ebbero la fortuna di essere portati sullo schermo da quei due impareggiabili attori, Gino Cervi e Fernandel, Peppone e don Camillo. Sono convinto che Guareschi non tramonterà con il passare della stagione di chi è vissuto in quell’epoca, ma che avrà qualcosa da dire anche per il futuro.

Ho letto la bibliografia su questo uomo di lettere, scoprendo che è quanto mai vasta. Io poi credo che anche da un punto di vista morale e religioso egli sia stato capace di passare mediante la sua prosa, valori autentici. A questo proposito m’è capitato di leggere persino un volume in cui un autore, di cui non ricordo il nome, ha scritto, estrapolando pensieri e battute tratte dalle sue opere: “Il catechismo di Guareschi è un catechismo particolare, però non privo di saggezza, di religiosità e soprattutto di capacità di passare valori attraverso il suo linguaggio carico di colore e di umanità”.

Tornando all’intervista ad Alberto Guareschi, “l’Albertino”, figlio dell’omonimo scrittore, persona non priva di talento, ha inquadrato il dramma dell’Emilia e della Romagna, colpite dal terremoto, ricordando la grande alluvione che sommerse il paese di Brescello, patria di don Camillo e di Peppone, narrata da suo padre.

Da questa intervista emerge la grande carica di umanità di questa popolazione, la sua volontà di risorgere comunque, la sua fede atavica, nonostante le rivoluzioni di pensiero, l’abitudine mentale alla concretezza e al lavoro. Verità che ho potuto riscontrare nelle dichiarazioni dei terremotati che i giornali-radio frequentemente ci hanno riferito in questi giorni amari.

“Vogliamo vedere Gesù!”

Ogni anno, quando celebro la festa del “Corpus Domini”, la prima sensazione che provo è quella dolce, da ricordi della mia infanzia. Quando di primo mattino, il parroco con l’ostensorio usciva sotto il baldacchino portato da quattro cappati in tonaca rossa. Apriva la processione per le vie del paese la Croce, poi gli uomini, la banda, quindi i bambini con gran ceste piene di petali di fiori che spargevano abbondantemente dove doveva “passare Gesù”. Ultime le donne.

Ricordo ancora le prediche appassionate del mio vecchio parroco che “indicava” a Gesù dove doveva guardare, chi doveva aiutare e chi doveva raddrizzare!

Ora non so se avvenga ancora così, comunque a questi dolci ricordi si sovrappongono oggi nel mio animo pensieri ben più consistenti e vitali. Quest’anno, per il “Corpus Domini”, ho cominciato con l’invitare i miei fedeli a riscoprire il volto di Gesù, lasciando i ritratti al loro posto per decorare le pareti delle case e della chiesa, invitando invece a scoprire, come gli apostoli sul monte Tabor, l’affascinante figura del nostro Maestro e Salvatore, sottolineando più che mai, sulla frase di Pietro: “Da chi andremmo, Signore, se soltanto tu hai parole di vita eterna!”.

In un mondo in cui abbiamo scoperto che le personalità dei capi sono squallide, interessate ed avide di potere e di denaro, la figura di Cristo emerge come qualcosa di splendido e di insostituibile, unico punto fermo a cui affidare la nostra vita.

Poi ho tentato di condurre per mano la mia gente perché sia conscia che ogni giorno Gesù si ripropone nella figura dell’uomo in difficoltà e nel bisogno: avevo fame, ero ignudo, ero ammalato, ero in carcere.

Gesù oggi lo posso e lo devo incontrare vivo, soprattutto nella quotidianità; l’Eucaristia del tabernacolo è quasi solamente occasione per sentirmi ripetere da Cristo ove lo posso incontrare, servire ed amare realmente.

Infine ho ripreso il discorso dei greci razionalisti che chiedono a Filippo, l’apostolo: «Vogliamo vedere Gesù!». La gente del nostro tempo, infettata dall’illuminismo e dal positivismo, è satura di parole e non sa che farsene delle prediche, ma vuole vedere con i propri occhi la persona del nostro Maestro e Salvatore.

Allora raccontai come Madre Teresa di Calcutta andò a Bologna in un grande teatro a ricevere un premio. Presentava Romina Power, la quale chiese a questa vecchia suora in sahri, curva e dal volto grinzoso, che faticosamente aveva salito la scaletta del palco: «Ci dica qualcosa!». Madre Teresa disse poche frasi in inglese, con concetti quanto mai noti a tutti. Quando però tacque, la gente si alzò in piedi e continuò ad applaudire per dieci minuti, perché i presenti avevano visto in lei Gesù.

Terminai dicendo che di “pensieri religiosi” il mondo è saturo, ma invece esso è ancora desideroso di “vedere” in noi il volto e la persona di Gesù!
Noi oggi siamo, volenti o nolenti, “il corpo di Cristo”!

La resa dei cattolici

Un tempo avevo una collaboratrice che comperava “Il Gazzettino” quasi esclusivamente per leggere gli avvisi mortuari; era curiosa di sapere chi se ne andava dalla nostra città.

A quel tempo mi sembrava una scelta o, peggio ancora, una mania un po’ macabra. Poi mi accorsi che anch’io, tristemente, in qualche modo la sto imitando, quando in certi tempi dell’anno leggo con morbosità e amarezza che le suore se ne vanno dalle scuole materne, o i religiosi chiudono certe attività per mancanza di vocazioni.

Spesso ho la sensazione che “il mio piccolo mondo antico” in cui sono nato, cresciuto e in cui ho sognato, si stia sfaldando e che ogni tanto perda qualche pezzo. Certe notizie negative però sono più consistenti, tanto da mettermi in affanno e farmi provare un senso di desolazione e di sconfitta.

Poche settimane fa ho letto sui giornali un pezzo che forse a pochi sarà parso significativo e triste e invece per me è stato come aver sentito le campane a morto, perché s’annunciavano che i vescovi del Triveneto hanno deciso di non finanziare più “Telechiara”, l’emittente televisiva cattolica del Nordest che da trent’anni parla delle vicende della diocesi e delle comunità cristiane del Triveneto.

Io ho assistito, una trentina di anni fa, alla nascita di questa creatura così promettente. In quel tempo c’era un fermento tra i cattolici ed un forte desiderio e volontà di aver voce presso l’opinione pubblica. Fu il tempo in cui spuntarono dal niente decine di radio di matrice ecclesiale. Io ebbi la fortuna di partecipare a quella stagione felice e promettente in cui, da pionieri, abbiamo dato vita alle “radio private”. Infatti con “Radio Carpini” ho partecipato alla tentata conquista dell’etere da parte dei cattolici. In verità non fu un’impresa di popolo, ma solamente di alcuni volonterosi; preti, vescovi e le parrocchie se ne sono stati alla finestra a guardare passivamente.

Pian piano queste voci si spensero abbandonando e lasciando il campo libero a certe emittenti banali, prive di proposte e ricche di volgarità. La “morte” di Radiocarpini la piango ancora amaramente. Ora pare che sia giunta alla fine anche Telechiara, l’emittente televisiva.

Questo annuncio funebre mi addolora quanto mai, perché la sento come una grave sconfitta: un’altra volta ancora i cattolici si rifugiano all’ombra del campanile che, prima o poi, finirà anche lui per non suonare più le campane.

I cattolici si stanno ritirando sempre più in sagrestia, pare che rinuncino a confrontarsi con chi crea opinione pubblica, con chi impone la sua tesi.

Ho letto su “Gente Veneta” un pezzo di mio nipote don Sandro, vicedirettore del periodico diocesano, da cui mi pare di capire che anche il nostro settimanale “Gente Veneta” è ormai sulle “linee del Piave”. Temo che anche in questo settore non tiri più aria di conquista ma di resa e ciò mi addolora quanto mai.

La coerenza di Madre Teresa

Ho già scritto di aver terminato di leggere un volume pubblicato da “Famiglia Cristiana” che contiene soprattutto il pensiero di Madre Teresa di Calcutta, testimone e profeta del nostro tempo. Spero però di scoprire, prima o poi, un testo che mi offra una biografia più attenta ed intelligente che incornici e presenti meglio questa singolare testimonianza di Madre Teresa.

Già nel passato mi è capitato di leggere, da adolescente, l’autobiografia di Santa Teresa di Lisieux, la giovane carmelitana che ha offerto ai cristiani del nostro tempo la splendida testimonianza di una santità autentica, realizzata attraverso una scrupolosa attenzione nel far bene le piccole cose che sono il tessuto della quotidianità. Allora non mi piacque un granché, perché lei mi era parsa una creatura sentimentaloide, con una personalità un po’ dolciastra. Fortunatamente, molti anni dopo, m’è capitato di leggere un’opera dello scrittore olandese Van Der Meersch, che ha inquadrato in maniera limpida ed intelligente l’umanità di questa giovane carmelitana coraggiosa e dal cuore grande, che s’è fatta santa mediante la “piccola via”, ossia col dare pienezza agli aspetti minuti del quotidiano.

Tornando a Madre Teresa, nonostante le carenze del testo letto, ho però scoperto che lei non era una vecchia suora tutta delicatezza ed amore: ebbe infatti un carattere forte e deciso, abbandonò la sua congregazione che le parve tarpasse le ali alle suore – scelta estremamente impegnativa -. Un giorno, quando un giovane prete, con una conferenza, propone tesi che lei ritenne pericolose per la sua comunità, lo licenziò decisamente e poi, per più di un’ora, smontò le teorie che lui aveva offerto.

Madre Teresa, innamorata di Cristo in maniera appassionata, visse poi dei tempi oscuri in cui strinse i denti senza sentire che Dio le era accanto, ricevette visite, offerte e riconoscimenti da parte di personalità, che a questo mondo contano, senza però lasciarsi vincere da soggezione ed orgoglio, continuando a portare avanti la causa degli ultimi e di Cristo.

Ho capito che questa donna rimase se stessa in ogni situazione, perseguì in maniera estremamente determinata ciò che la coscienza le dettava, mai si adattò ai modelli che la cultura, la tradizione e perfino la Chiesa di allora portava avanti come validi. Fu fedele alla sua missione fino alla fine, riuscendo a dire al mondo che anche la creatura più umile è degna di rispetto e di affetto.

Come nel nostro tempo ci sono state purtroppo delle personalità forti che seminarono violenza e distruzione, altrettanto ella visse in positivo questa forza. Il mondo intero si inchinò di fronte alla sua proposta ed intuì quanto fosse valida.

Ho concluso che ogni persona deve rimanere se stessa fino in fondo, perché uno dei mali più gravi è quello di accettare di farsi modellare sugli stampi proposti dell’opinione pubblica e dai “poteri forti” che non sono solamente quelli dell’economia.

La santità personale

In tutta la mia vita di prete mi sono sempre impegnato a fondo per studiare strategie per passare il messaggio di Cristo alla gente del nostro tempo. Credo di aver speso il meglio della mia intelligenza e del mio cuore, del mio tempo e delle mie risorse economiche per vedere come usare gli attuali strumenti di comunicazione sociale perché “la buona semente” raggiungesse tutti e perché il messaggio arrivasse in modo particolare a quella porzione di umanità che la Chiesa ha affidato alla mia cura pastorale.

Devo ammettere che, con l’aiuto di una schiera veramente numerosa di collaboratori, questi strumenti, almeno da un punto di vista esteriore, sembravano vincenti. Da un lato ho adoperato in maniera massiccia gli strumenti di comunicazione di massa, dando vita ad una emittente squisitamente religiosa con duecento volontari e con una rete di ripetitori che coprivano l’intera diocesi, non solamente, ma arrivava a tutta la fascia compresa dall’alta trevigiana fino a quasi Ravenna.

Ho pure usato, con estrema larghezza, il messaggio a mezzo scrittura, dal settimanale “Lettera aperta” ai mensili “Carpinetum” e “L’anziano”, i periodici che hanno raggiunto una tiratura quanto mai consistente.

L’altro strumento che ho ritenuto efficace è stato quello della solidarietà, ponendo in atto dalla “Bottega solidale” al “Ritrovo” per gli anziani, dalla villa asolana per le vacanze dei vecchi a tutte le strutture per offrire residenza, vedi il “don Vecchi”. Credo che queste scelte mi abbiano guadagnato la simpatia dell’opinione pubblica, soprattutto dei cosiddetti “lontani”.

Temo invece che mi abbiano alienato la simpatia di tutti coloro che avrebbero desiderato un prete a loro uso esclusivo, cioè i cosiddetti “vicini”. Comunque, dall’alto dei miei ottant’anni, non sono scontento delle mie scelte. Le rifarei, se ne avessi l’opportunità.

Invece temo di non aver curato sufficientemente quella che nell’uso corrente della Chiesa si definisce “la santità personale”, alla quale in verità non ci terrei troppo neanche ora, se viene interpretata come un comportamento devozionale o mortificazione di quei doni specifici che il buon Dio dona a ciascuno. Temo ancora di non aver curato tutti gli aspetti minori di quel sano umanesimo cristiano, testimoniati da Gesù nel Vangelo.

Ormai non ho quasi più il tempo per farlo, però mi riprometto, almeno, di terminare in bellezza, impegnando più tempo e tensione interiore per vivere una vita di fede più intensa ed esemplare.

Sono contro tutti i fannulloni!

Qualche persona mi ha chiesto come mai ce l’ho tanto con i preti, miei colleghi. Non credo proprio che le cose stiano così. Ho un’ammirazione sconfinata, che rasenta l”adorazione” verso certi preti, miei colleghi, impegnati, coerenti, che non si risparmiano, che sono in costante ricerca di soluzioni pastorali sempre più adeguate ai tempi nuovi, che amano la loro gente e soccorrono i loro poveri, che tengono bene le loro chiese, che si preparano le omelie, che curano i loro bambini e i loro giovani e si fanno in quattro per il bene della loro comunità.

Sentirei un forte desiderio di scrivere i loro nomi, ad uno ad uno, con accanto le motivazioni che mi spingono a questa stima.

Il clero della nostra città, tutto sommato, è un bel clero, ogni prete ha doti particolari, risorse specifiche, talvolta anche con risultati diversi perché ogni comunità può aver avuto, precedentemente, pastori più o meno validi, perché l’estrazione sociale è diversa, per la collocazione della chiesa, per la tradizione di ogni singola comunità. Comunque, quando scorgo un prete coerente e che lavora, mi tolgo tanto di cappello e provo rispetto, reverenza e stima nei suoi riguardi e mi dispiace che poco si apprezzino i risultati positivi.

Però quando vedo chiese chiuse la gran parte del giorno, canoniche con porte sbarrate, patronati deserti, chiese in disordine; quando apprendo che il parroco riceve si e no un paio d’ore alla settimana, quando nessuno risponde al telefono, quando le messe sono ridotte al minimo e le visite alle famiglie quasi nulle, quando il lavoro da prete si rifà a criteri sindacali, quando ogni motivo è valido per uscire dalla parrocchia, quando si accampa diritto di ferie o si afferma che non ci sono poveri nella parrocchia, allora provo la stessa tentazione di denuncia.

Qualche giorno fa ho letto su un “bollettino parrocchiale” che nei mesi di giugno, luglio e agosto, in una parrocchia con un numero di anime pressappoco uguale a quello che avevo io nella mia, si celebrerà una sola messa; allora scatta in me un sentimento di rifiuto.

Ritengo giusto che i cristiani sappiano quello che debbono pretendere dai loro preti. Oggi tutte le istituzioni, dalla politica alla scuola, dal sindacato alla pubblica amministrazione, sono messe sotto accusa e c’è una richiesta forte di bonifica dei fannulloni e dei furbi. Perché tutto questo non dovrebbe essere opportuno anche per il mondo ecclesiastico?

Sono convinto che una certa denuncia che nasce dall’amore verso la propria Chiesa, non sia una cattiveria, ma un sacrosanto dovere!

Una vecchia mania

Ormai da quasi una decina di anni vive con me al “don Vecchi” mia sorella Rachele nata, tra i sette figli dei nostri genitori, immediatamente dopo di me e quindi mi segue come età ad un paio di lunghezze.

Mio cognato Amedeo, compagno dei giochi d’infanzia, era un capomastro di impareggiabile bravura; sennonché, una ventina di anni fa, un ictus prima lo portò sull’orlo della fossa e poi, fortunatamente, si salvò, ma rimase fortemente condizionato.

Mia sorella e mio cognato, una volta sposati i quattro figli, erano rimasti terribilmente soli, tanto che a tutti in famiglia sembrò che al “don Vecchi” avrebbero trovato un alloggio alla portata della modestissima pensione e soprattutto “un borgo” in cui sarebbe stato facile intessere nuovi rapporti umani. E così fu. Amedeo visse tempi veramente sereni, concludendo un paio di anni fa la sua vita, circondato dall’affetto e dalla stima della nostra comunità.

Mia sorella invece, che ha ereditato dal babbo una facilità di intessere amicizie, ha un dialogo facile e piacevole con tutti ed una capacità di collaborare senza farsi condizionare dagli anni e dagli acciacchi. Ogni tanto mi capita di sorprenderla a raccontare fatti della nostra famiglia, episodi della nostra infanzia, incuriosendo le sue amiche con episodi che io, piuttosto riservato, ho sempre tenuto per me, non perché mi vergogni del mio passato più che modesto, ma perché sono piuttosto introverso e solitario: l’opposto di lei.

Credo che talvolta però aggiunga ai racconti qualcosa di suo, comunque queste evocazioni mi portano a galla sentimenti, abitudini e manie proprie della mia infanzia e spesso mi fanno comprendere che la personalità di quel bambino dai pantaloncini corti è rimasta viva tuttora, nonostante che una valanga di anni l’abbia ormai coperta.

Qualche giorno fa l’ho sentita raccontare, con una certa enfasi, e con la mimica di un’attrice provetta, la mia mania dell’ordine. Abitavamo in una casetta di campagna: da un lato c’era un fornello per la polenta, dall’altro il pollaio che mio padre sorvegliava col suo schioppo calibro 16, il giardinetto e il cortile. La mamma affidava a me, che ero il più grande, il compito di scoparlo ogni pomeriggio. Mi aiutavano qualche volta anche le mie sorelle. Io però ero incontentabile e maniaco: non solo pretendevo che fosse perfettamente pulito, ma esigevo che il cortile risultasse quasi un’opera d’arte, che le scopate fossero ordinate ed armoniose.

Son passati settant’anni, ma i Centri don Vecchi hanno la stessa impronta: non una pianta, una foglia, un quadro, una sedia, possono rimanere fuori dal loro posto!

Da grande, negli scritti di ascetica e di morale, ho imparato la giustificazione: “Conserva l’ordine e l’ordine ti salverà”. Mi pare che i residenti al “don Vecchi” “bongré o malgré” hanno imparato la lezione ed osservino anche loro le mie vecchie manie!

Quanto avrei potuto fare di più!

Sono sempre stato convinto che i sogni non sono per nulla premonitori del futuro prossimo o lontano, ma invece consistono in una rielaborazione particolare, fuori dalla logica razionale, di ciò che ci è successo o di quello che andiamo pensando.

Non mi preoccupa perciò per niente, né mi fa sperare in qualcosa di positivo non previsto, quello che sogno durante la notte, semmai il sogno mi invita ad approfondire le sensazioni, gli eventi o i pensieri che hanno determinato quel sogno.

Il racconto agli altri dei propri sogni, soffermandosi su particolari o passaggi strani, spesso annoia solamente. Perciò mi guardo bene dal raccontare i miei sogni agli amici per non tediarli; già sono fin troppi i motivi che ci costringono a guardare ciò che avviene nella realtà.

Nonostante questa consapevolezza, oggi mi lascio andare, una volta tanto, ad una confidenza rivolta agli amici più cari raccontando, in maniera estremamente concisa, un sogno che mi ha turbato a tal punto da destarmi dal sonno con un sentimento quasi angoscioso, costringendomi a ripensare al sogno come occasione di approfondimento interiore. Ho sognato, nitidamente e con gioia, mamma e papà con volti sereni e composti, ma che subito mi han detto che erano morti.

Non so per che strana logica ho concluso che anch’io sono prossimo alla morte. La mia riflessione però non l’ho colta come una delle conclusioni scontate che passano come l’acqua sopra i sassi del torrente senza lasciare traccia, ma ha suscitato nel mio animo un qualcosa che mi ha estremamente coinvolto e turbato, tanto che credo che mai ho affrontato questo evento in maniera così emotivamente intensa.

Il giorno successivo non ho fatto altro che inquadrare la mia esistenza come un’esperienza ed una storia ormai quasi conclusa e mi sono quasi costretto a dare un giudizio complessivo a Dio della mia vita per il giudizio finale.

Essa mi è parsa una gran bella avventura, piena di incontri, di possibilità, ricca di esperienze. Forse non potevo aspettarmi qualcosa di meglio. Mi sono sentito un privilegiato di fronte a tante vite incolori, monotone; però, Dio mio, ho capito di quanto avrebbe potuto essere più intensa, più generosa e più coraggiosa. E quante miserie avrei potuto evitare.

Uno dei miei ragazzi, giornalista al Corriere della Sera, mi ha proposto un giorno di scrivere la mia biografia. Ho rifiutato nella maniera più decisa: preferisco mettere nel cuore misericordioso del Signore la mia esistenza perché, facendo il bilancio globale, mi pare di osservare un immenso deficit tra quello che avrei potuto esprimere e quello che ho effettivamente realizzato delle mie potenzialità.
Il confronto tra possibilità e risultato reale è qualcosa di preoccupante.