Ricordi del Piave

Io sono nato e ho vissuto tutta la mia fanciullezza sul lembo di terra che lambisce la sponda sinistra del Piave. Il fiume sacro della Patria scorre, quasi sempre tranquillo e sornione, verso la foce. Raramente questo corso d’acqua ingrossa e s’avvia rabbuiato e torbido. Normalmente il Piave scorre lento verso il mare, le sue acque sono solo talvolta appena increspate quando spira un po’ di brezza dall’Adriatico assai vicino.

Il rapporto con il grande fiume del mio paese è sempre stato caldo ed affettuoso, l’ho amato come un caro amico che camminava tranquillo e taciturno accanto a me.

Le mille volte che ho attraversato il ponte di ferro che congiunge le due sponde del fiume, il mio sguardo si posava con simpatia ed accarezzava quelle acque quiete e pulite che scendono dai monti per immergersi dolcemente nell’Adriatico, il mare delle terre venete, che le accoglie amorosamente a braccia aperte.

Da bambino, quando militavo con i balilla, ai tempi del Duce, più di una volta m’è toccato di lanciare la corona di alloro per onorare i sacrifici dei nostri soldati che durante la grande guerra hanno fermato “il nemico” dopo la rotta di Caporetto.

Il mio rapporto con le acque del Piave s’è nutrito ulteriormente del ricordo dei racconti del babbo, che ispirato dal patriottismo proprio di quei tempi e che ora si è di molto ridotto, faceva del nostro fiume la barriera contro chi invadeva il sacro suolo della Patria. La canzone poi del Piave sanciva, a livello emozionale, questo amore viscerale per la nostra terra: “Il Piave mormorò: non passa lo straniero!”

Questi cari ricordi di un passato ormai lontano si sono fatti più vivi in queste ultime settimane con la lettura del volume “Foglie secche”, il diario di un nostro conterraneo, don Celso Costantini, il quale partecipò da protagonista, a quelle tragiche vicende, da cappellano militare. Gli eventi che emergono dal diario di questo prete, buono ed intelligente, diventato poi cardinale di Santa Romana Chiesa, pur risentendo essi pure di un pizzico di nazionalismo, mi sono apparsi ben più realistici, fuori da quella cornice un po’ favolosa e patriottica con cui papà me li aveva descritti e il clima nazionalista proprio del fascismo me li aveva montati.

Ora il Piave rimane per me solamente un dolce ricordo della mia fanciullezza e della mia cara terra e mi aiuta ad essere riconoscente per quel patrimonio di esperienze che resta ancora un punto di forza della mia vita e che mi aiuta a scorrere lento ma inesorabile verso il mare infinito. Però, pur nella sua calma dolcezza, vi leggo un monito contro ogni qualsiasi sentimento di rancore, di odio e di pregiudizio.

Testimonianze di Fede ai giovani

Più volte ho parlato di Roberto, il mio fratello più piccolo, prete come me, e parroco della popolosa parrocchia di Chirignago. Più volte poi ho sentito il bisogno di riconoscergli capacità, dedizione, coerenza e risultati notevoli. Don Roberto è un parroco intelligente, conosce il suo “mestiere” e lo fa bene, tanto da avere una bella parrocchia, forse la più bella del Patriarcato.

Qualche settimana fa, in occasione di una “tre sere” dedicata ai suoi giovani, sul tema “La fede”, mi ha invitato ad offrire la mia testimonianza. Eravamo in quattro a dire come era nata la nostra fede, come era cresciuta, le difficoltà che avevamo incontrato e lo stato di salute attuale.

Io, ottantatreenne, ero il più vecchio, prete da più di mezzo secolo. Dopo di me c’era un impiegato di una fabbrica di Marghera, ormai in pensione, una buona quindicina di anni di meno, poi due giovani cresciuti da don Roberto, ambedue trentenni (uno vecchio scout, “quadro” della “Veritas” ed uno dell’Azione Cattolica, insegnante in una scuola delle superiori).

Il pubblico era costituito da circa 150 giovani, dai 15 ai 25 anni, attenti e silenziosi. Abbiamo offerto, tutti e quattro, la nostra testimonianza di credenti, con onestà e convinzione, tutti e quattro credenti e praticanti.

L’uomo maturo si è presentato come un vincenziano, impegnato ad essere vicino ai colleghi in difficoltà, testimone della fede in un mondo lontano, indifferente e spesso critico.

Il funzionario della Veritas ci ha raccontato come lo scoutismo l’aveva salvato e maturato alla fede.

L’insegnante ha letteralmente rubato la scena col suo discorrere scorrevole e piacevole, raccontando la storia sua e della moglie, sposi senza figli, che hanno adottato due ragazzine, una delle quali disabile, e l’altra fortemente compromessa a livello psicologico ed avevano accolto poi altri tre figli che il buon Dio, un po’ tardivamente, aveva aggiunto alle due prime adottate. E’ stata una bella testimonianza, una traduzione concreta e faticosa della fede.

Io ho arrancato – da sempre sapevo che questo tipo di interventi non mi sono congeniali – ma all’entusiasmo e all’impegno di don Roberto non potevo e non ho voluto dire di no. Comunque mi sono accorto che di fronte alle testimonianze pulite e semplici dei miei tre colleghi e al candore della splendida ed innocente platea dei ragazzi, la mia fede era molto più problematica, sofferta e messa a dura prova dalla cultura e dal pensiero corrente.

Penso senza presunzione d’essere più avanti, di star precorrendo i problemi che questi giovani, prima o poi, dovranno affrontare se vorranno che la loro fede sia credibile e feconda nel nostro tempo.

Mi auguro che incontrino chi li guidi a passare da un cristianesimo piuttosto formale e rituale ad una fede più adulta e in linea con i tempi nuovi.

La nostra assurda burocrazia!

Ho l’impressione che i danni portati dall’utopia nata da Marx nell’ottocento siano veramente immensi, superiori di certo a quelli macroscopici rilevati dai più, ossia la perdita della libertà, la miseria a livello economico e la barbara repressione di chi non si allineava alla politica della Nomenclatura. Questi danni non si sono registrati solamente nei paesi in cui questa ideologia è andata al potere, ma hanno pure investito, contagiato e danneggiato anche chi non ha subìto il giogo del potere proletario, anche le nazioni con governi a conduzione liberale.

Faccio un esempio. I paesi soggetti alla dittatura del proletariato erano vessati non solamente dalla classe politica che governava, ma pure da burocrazia che aveva raggiunto livelli parossistici. Basta leggere “La fattoria degli animali” di Koestler per averne una prova lampante. Purtroppo la mentalità e lo stile burocratico tipico dei Paesi dell’Est ha appiattito e mortificato anche l’amministrazione politica del nostro Paese che, fortunatamente, non ha fatto un’esperienza diretta di qualche dittatura.

La mentalità burocratica è giunta da noi come l’influenza asiatica o la spagnola, togliendo respiro e spazio vitale all’avventura e all’imprenditorialità. Quando qualcuno tenta di aprire una piccola azienda, s’impegna in una qualsiasi iniziativa, la burocrazia del Comune, della Provincia, della Regione, dello Stato e del parastato, appena se ne accorge lo blocca, l’avviluppa in una serie di norme, di adempimenti e di carte che se egli non è un eroe, è costretto a cedere o a sopravvivere miseramente.

Forse questa realtà funesta, ereditata dall’utopia marxista, che vedeva lo Stato come la nuova divinità, che doveva provvedere a tutto, ha influenzato soprattutto i giovani, ma anche i meno giovani che appaiono abulici e senza iniziativa.

Da qualche tempo sto osservando un signore, che credo sia uno dei tanti che non riesce a sopravvivere con la sua misera pensione, che s’è inventato un’attività per sbarcare il lunario. S’è preso un “Doblò” ed avendo capito le difficoltà degli anziani delle case di riposo di spostarsi con i mezzi pubblici, armatosi di pazienza, disponibilità, cortesia e generosità, trasporta gli anziani del “don Vecchi” e di altre strutture alle visite mediche, alle terapie, rappresentando un’opportunità quanto mai utile per gli anziani.

Io non so se servano permessi e quali, per fare questa attività, e neppure so se egli li possegga, ma sono certo che se la burocrazia se ne accorge renderà la vita dura, se non impossibile, a questo “libero imprenditore” che ha risolto il suo problema di vivere e quello degli anziani di spostarsi.

Come uscire dalla crisi: un po’ di franchezza!

La Caritas e la San Vincenzo, pare facciano a gara con i sindacati e la sinistra per denunciare i milioni di italiani che devono tirare la cinghia, che non arrivano a fine mese e le centinaia di migliaia di giovani che non riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro. Questi enti sono alleati nel denunciare questi mali della società in questo momento di crisi.

I primi però non solamente non si arrischiano a proporre soluzioni positive ed invitare la gente alla sobrietà, alla buona volontà, ma neanche pare trovino il coraggio di invitare e spronare le parrocchie, gli ordini religiosi, le curie e la Chiesa in genere a darsi da fare, a condividere il benessere di cui godono con i poveri vecchi e nuovi e a promuovere tra i cristiani una coscienza solidale. I secondi poi, appartenenti quasi tutti alla “Casta”, percepiscono lauti stipendi, fruiscono di agevolazioni di ogni genere, sbraitano con tutta la voce che hanno in petto denunciando le evasioni fiscali, l’usura delle banche, la chiusura mentale degli avversari, mentre continuano ad intascare ed a trescare con ogni tipo di sotterfugio.

Pare che nessuno si sia accorto che i due milioni di extracomunitari che oggi vivono in Italia sono occupati in quei lavori che gli italiani non si degnano e non vogliono più fare.

Diciamocelo onestamente: in Italia c’è crisi, ma anche poca voglia di lavorare. I sindacati, che vivono lautamente sullo scontro sociale, sulle rivendicazioni salariali, sulla riduzione dell’orario di lavoro, hanno ormai passato una mentalità che in un mondo globalizzato non potrà mai reggere alla concorrenza dei cinesi, degli indiani ed in genere di tutto il terzo mondo o dei paesi dell’est d’Europa.

Pochi hanno l’onestà di denunciare che oggi si cercano quasi solamente lavori non faticosi, orari raccorciati, paghe alte, poca responsabilità, poco coinvolgimento sull’andamento delle proprie imprese. I sindacati pare che quasi siano impegnati a far fallire le imprese e ad impedire ogni provvedimento che richieda più serietà e più impegno per chi lavora.

A me vengono in mente anche altre soluzioni terra terra, per superare la crisi economica. Per esempio fare in modo che i condannati possano e debbano lavorare e far si che, pur lasciando loro una parte del guadagno, il resto vada alla società. Così pure che ci siano campi e laboratori per la rieducazione di chi si droga, sempre lavorando; che vengano tassati i ristoranti e gli alberghi di lusso, i possessori di auto con più di 1500 di cilindrata, gli alcolici, il fumo, i profumi, gli indumenti firmati, i palazzi e gli appartamenti di lusso, ecc. ecc.

Devo confessare che sono figlio di mia madre che diceva sempre: «Vorrei essere io al Governo!» e condivido fino in fondo la domanda desolata della signora Novello: “Per chi paghiamo il costo della crisi?”.

Basta risse, auspico una nuova stagione di dialogo pacato e costruttivo!

“Ballarò” è una rubrica condotta da un giornalista, seppur intelligente, eccessivamente fazioso e morbosamente di sinistra. “Ballarò” mi piace perché affronta sempre temi di scottante attualità e perché sempre intervengono i protagonisti delle sponde opposte, intelligenti, fini parlatori, preparati e disinibiti.

Ogni volta che mi imbatto in questa trasmissione mi pare di assistere a un duello all’arma bianca combattuto fino all’ultimo sangue. Ogni volta ho la sensazione di sentire il rumore delle sciabole che si incrociano, dei fendenti tirati con decisione per colpire mortalmente l’avversario, con colpi talvolta intelligenti e magistrali e talaltra furbi e bassi. E’ raro che gli interventi siano garbati, rispettosi, eleganti, attenti a cogliere i lati positivi del discorso dell’avversario; quasi sempre sono spietati e tesi a dare il colpo di grazia per stendere a terra il nemico.

Spesso intervengono esperti, che pur simpatizzanti dell’uno o dell’altro campo, sono i più rispettosi, ma i politici di mestiere mi appaiono quasi sempre crudeli e spietati; la provenienza e il mestiere che fanno sono quasi sempre qualificanti e ne seguono lo stile.

Qualche settimana fa l’argomento era la solita crisi economica e i rimedi da prendersi. Tra gli altri partecipava una docente universitaria, una donna capace, documentata, ricca di garbo e di signorilità, che espose le sue tesi in maniera lucida e convincente, ed un’altra signora proveniente invece dal sindacato. Quanto la prima era pacata e rispettosa, pur decisa a portare avanti le sue tesi, altrettanto la seconda mi è apparsa demagoga, faziosa, intransigente e pronta a lanciare lo slogan ad effetto.

Di certo ognuna portava un contributo e leggeva la realtà, seppur da angolature diverse, però ho avvertito una sensazione di fastidio e di rifiuto di fronte a quella rissosità e all’atteggiamento di costante polemica, che mi pare siano il peccato originale del sindacato.

San Francesco di Sales afferma che “la verità che non passa attraverso la carità finisce per non essere neppure verità”. E’ tempo che in Italia si apra una stagione ecumenica di dialogo pacato, costruttivo e rispettoso, se vogliamo aprire una stagione nuova in cui ognuno concorra positivamente al bene comune.

Storie di guerra

Tanta gente, quando si imbatte in un volume che crede mi possa interessare, me ne fa gentilmente dono. Ho quindi, nel mio studiolo, una fila di volumi che amerei tanto leggere, ma che, col poco tempo che ho e con i ritmi di vita a cui mi pare di essere costretto, penso che resteranno ad aspettarmi almeno per una decina di anni. Se il Signore, data la mia data di nascita, intendesse mandarmi “la cartolina di precetto”, dovrei domandare una proroga consistente, perché ho ancora troppo da leggere e da fare.

Spinto dalla curiosità e dall’interesse, ogni tanto sono tentato di leggere qualche pagina dell’uno o dell’altro volume, sperando di cogliere, con queste fugaci ed intervallate letture, il succo del testo. La lettura, perché sia proficua, esige però continuità ed attenzione.

Comunque per adesso sono attratto quanto mai dal libro “Foglie secche”, il volume che una mia “antica” ragazzina dell’asilo, ora validissima ricercatrice dell’università di Venezia, essendo esso esaurito, ha trovato il tempo e la volontà di fotocopiare, pensando che mi interessasse.

La lettura di questa specie di diario dell’arcivescovo Celso Costantini, letteralmente mi affascina, perché racconta la vicenda tragica della mia gente e della mia terra durante la prima grande guerra. La lettura si coniuga quanto mai con i racconti di mio padre, che visse sulle sponde del Piave le amare vicende del nostro Paese invaso dagli austriaci, poi, da profugo, nelle retrovie del fronte.

Quelle storie di guerra che mio padre mi raccontava e che io, bimbo, ascoltavo con avidità come fossero favole, sono descritte dall’alto prelato con penna puntuale e felice, inquadrandole da un punto di vista storico, sociale e religioso. Ora capisco più che mai il dramma dei miei genitori, dei miei nonni e della mia gente, provata dal turbine della guerra, ma che, nonostante tutto, era sana, religiosa, solidale. Ora capisco quanto fossero saggi, bravi i nostri vecchi preti, capaci di trasmettere la fede e la bontà.

Monsignor Costantini, uomo del suo tempo, trasuda di patriottismo ha una visione della guerra, come riscatto, occasione di rinnovamento civile e una missione quasi sacra che noi, a quasi un secolo di distanza, non possiamo più condividere. Però riesce a farci prendere coscienza di come il nostro Veneto fosse sano e attaccato a sacri valori, ora traballanti.

Che gioia vedere i fiori del domani al don Vecchi!

Nella “cultura”, o meglio, nell’opinione pubblica degli operatori sociali del settore della terza e quarta età, è diffusa la convinzione che le case di riposo siano un ghetto in cui gli anziani sono tagliati fuori dalla vita.

Credo che questa idea non sia per nulla sbagliata. Più di una volta mi è capitato di percorrere la fondamenta di Cannaregio, dove si possono vedere ancora, nel “sottoportego” che conduce al vecchio ghetto, i segni dei cardini dei cancelli con i quali, ai tempi della “Serenissima” i veneziani alla sera chiudevano la numerosa comunità degli ebrei che vivevano e trafficavano a Venezia.

Le portinerie delle case di riposo per gli anziani, anche se non hanno cancelli con lucchetti, ma pulsanti con apriporta elettrici, non sono dissimili dai ghetti nei quali un tempo le varie città d’Italia e d’Europa rinchiudevano gli ebrei della diaspora.

Fortunatamente, non per caso, ma per scelta lucida e cosciente, al “don Vecchi” le cose non stanno così; le porte, al solo comparire di una persona che vuole entrare od uscire, si aprono elettronicamente senza dover chiedere il permesso a nessuno. Il don Vecchi è come la bocca di porto, attraverso cui l’acqua delle maree entra ed esce liberamente ogni giorno. Infatti c’è un viavai di amici, di famigliari, di grandi e di piccoli, per cui il nostro “borgo” è intercomunicante con la città, uno dei suoi quartieri, connesso fisiologicamente con il resto della comunità cittadina.

Qualche settimana fa però, quando don Gianni, il nuovo giovane parroco di Carpenedo, ci ha portato una sessantina di bambini del catechismo con i relativi genitori, per un incontro nella “sala dei trecento”, mi è parso che il nostro “borgo” sia diventato una delle tante città d’arte visitate dalle scolaresche in gita scolastica. M’è parso di sentire quel “profumo d’infanzia” che da tanto non avvertivo: corse, spinte, esclamazioni, richiami, sgambetti, osservazioni stupite.

I fiori di campo di primavera offrono un incanto che non si può paragonare neppure a quello delle fiorerie di lusso. I bambini non sono soltanto i virgulti del domani, ma rappresentano la primavera, la festa della vita, il sogno che si cala nel quotidiano. Peccato che il nostro mondo, solamente preoccupato del benessere, riservi sempre meno spazi per questi fiori che ingentiliscono la vita e la rendono più bella, più cara e più gradita.

Speranza o terribile disillusione?

Ieri mi è parso che il cielo della politica si sia finalmente rasserenato con l’avvento del “tecnico” Mario Monti al Governo. Sapere che il nuovo presidente va a messa assieme alla moglie, quella vera, scelta una volta per sempre davanti all’altare, mi aveva aperto il cuore, sperando che finalmente anche nella politica si fosse voltata pagina, lasciando alle spalle i compromessi, come la morale matrimoniale, gli intrallazzi con la mafia e con i faccendieri para-politici e i rapporti puramente formali con la fede.

Ad un giorno di distanza dalla sensazione di poter respirare aria nuova e pulita anche in Parlamento e al Governo, mi capita una mazzata che mi ha stupito e che ha tolto respiro alla mia fresca speranza.

Nel tragitto don Vecchi-cimitero io, per non perder tempo e soprattutto per mantenermi aggiornato, ascolto la radio, dato che il mio vecchio coinquilino m’ha regalato una “Punto” tanto confortevole che ha perfino la radio. Normalmente ascoltavo Rai uno, ma per qualche motivo, che mi rimane sconosciuto, ho perso la frequenza e dopo un affannoso ed inesperto smanettare ora mi ritrovo sull’onda di Radio Radicale.

Non ho neppur tentato di cambiare, perché mentre sulle stazioni della Rai mi imbattevo fin troppo di frequente in programmi futili, infarciti di pettegolezzi e di battute schiocche e banali, Radio Radicale è fin troppo seriosa e a tutte le ore del giorno e della notte affronta problemi di grosso spessore e di grande interesse sociale.

Nella interessante ed approfondita rassegna stampa, il conduttore della rubrica riportava un articolo di non so quale testata che presentava Monti da un’angolatura ben diversa, descrivendo il presidente “tecnico” con il grembiulino dei massoni di uno dei tanti ordini, ritratto tra i segni tipici della massoneria: compasso, squadra e sole all’orizzonte!

Sarà vero o no, non lo so e non credo che riuscirò a saperlo, comunque la notizia mi ha messo un tarlo in testa che proprio non ci voleva, anche perché poco dopo se ne è aggiunto un altro: Monti avrebbe uno stipendio di venticinquemila euro al mese! Se fosse vera anche questa notizia, mi sarebbe proprio impossibile pensarlo come un presidente che può farsi carico di quell’infinito mondo di lavoratori a mille euro il mese e di pensionati a cinquecento!

Il comportamento del cittadino Monti mi fa ben sperare

Spesso ci sono dei piccoli segni che indicano lo spessore umano e spirituale di un uomo, di un popolo, ma soprattutto di una cultura. A questo proposito ho avuto modo di osservare che non c’è stato mai un discorso di spessore da parte di un presidente degli Stati Uniti d’America che contenesse un richiamo a Dio.

Da noi in Italia, purtroppo, pur essendo il nostro un popolo fondamentalmente di tradizione religiosa, forse più di altri popoli, ben raramente un capo di governo, o peggio ancora un Presidente della Repubblica, ha avuto ed ha il coraggio di interpretare il senso comune della sua gente rivolgendo un pensiero a Dio nei suoi discorsi ufficiali.

Questa forma di “rispetto umano” e di spirito antireligioso, nel passato era di certo determinato dal potere temporale dei papi, potere esercitato forse anche in maniera poco democratica e meno ancora rispettosa della libertà di coscienza dei cittadini da parte dello Stato pontificio e della sua politica.

Ora però, anche se non sono del tutto scomparse le intromissioni della gerarchia nella vita della nostra nazione, è meno comprensibile questo laicismo più o meno evidente nei comportamenti degli uomini della politica e soprattutto dei rappresentanti dello Stato.

Mi ha felicemente sorpreso che gli operatori dei mass media, nelle due domeniche successive alla nomina di Monti a capo del Governo, ci abbiano informato, senza sottolinearlo troppo, che tra i suoi vari impegni il nuovo presidente abbia trovato il tempo di andare a messa sia nella prima che nella seconda settimana della sua elezione. Tutto fa pensare che continuerà a farlo anche in seguito.

Questa notizia, seppur fuggevole e marginale al grave impegno che Monti si è assunto, che mi pare sia l’aspetto più vero del suo sentire cristiano, mi porta a pensare che egli sia una persona sana, un’espressione della parte più vera e più nobile del popolo italiano. Il fatto che il cittadino chiamato ad amministrare la cosa pubblica, vada a spasso con la moglie accanto, che parli con semplicità, che accetti di farsi carico di una situazione disastrosa e che poi vada anche a messa la domenica assieme alla moglie, mi fa proprio ben sperare. Questo fatto è ancor più positivo perché i politici della Seconda Repubblica ci hanno purtroppo abituati a vederli vestiti delle peggiori magagne e, dal capo del Governo in giù, con frequentazioni di bassa moralità. Chissà che sia finalmente la volta buona!

Premiato come “imprenditore di Dio”

Già molti anni fa un mio caro parrocchiano che era presidente della Camera di Commercio di Venezia, mi aveva dato la tessere dei commercianti ad honorem per i “meriti” che, secondo lui, avevo acquisito per la costruzione dei Centri don Vecchi. Qualche settimana fa la Fenacom ha replicato!

L’associazione “Cinquanta e più” che si occupa, dei commercianti in pensione, ma anche di tanti altri operatori, in una solenne cerimonia, tenutasi nella splendida sala dell’antica scola veneziana di san Giovanni evangelista, ha consegnato un riconoscimento a tutti i benemeriti che da decine di anni s’erano impegnati, o sono ancora impegnati, in attività commerciali.

Per tale incontro sono stato invitato anch’io, quale “imprenditore di Dio”, che da oltre mezzo secolo m’arrabatto a favore dei poveri. Sono stato felice di vedere come questi piccoli imprenditori del commercio, che nelle loro botteghe sono impegnati senza orari e senza ferie, si danno da fare da mane a sera per mantenere in piedi le loro traballanti attività per offrire ai concittadini servizi indispensabili per il buon vivere, ricevevano un riconoscimento per il loro impegno.

In Italia non solo i capitani d’industria, i managers di grandi aziende, ma anche tutti questi coraggiosi, infaticabili ed eroici imprenditori di piccole aziende familiari, costituiscono l’autentica ricchezza del nostro Paese.

Ricordo con quale orgoglio mio fratello un paio di anni fa ha accolto un riconoscimento del genere, per la minuscola falegnameria artigianale che mio padre aveva iniziato settant’anni fa.

Confesso che sono stato felice che i dirigenti di queste associazioni di anziani del piccolo commercio mi abbiano assimilato, riconoscendo la fatica, il rischio, la solitudine e l’impegno che da più di mezzo secolo mi hanno accompagnato nel tentativo di tradurre nella concretezza il comandamento di Dio di impegnarsi a favore del prossimo in difficoltà.

Forse non so se sia stato più felice o più sorpreso che questo riconoscimento mi sia giunto da questo mondo che ben conosce la fatica e il rischio di affrontare ogni giorno mille difficoltà di chi opera concretamente, piuttosto che dai responsabili della “mia congregazione” che per mandato e per scelta dovrebbero essere i più sensibili e coloro che dovrebbero maggiormente riconoscere ed incoraggiare gli operatori di questo settore vitale del vivere da discepoli di Cristo.

Bisogna prevenire anche il “default dello spirito”, non solo quello economico!

Mai ho sentito parlare di finanza come in questo ultimo tempo.
So di non avere una mente particolarmente acuta, e meno che meno d’avere una seppur elementare competenza in fatto di economia. Finora mi è bastata, e mi pare sia stata sufficiente, la consapevolezza che se si vuole avere la possibilità di vivere decentemente, bisogna lavorare sodo, non spendere più di quanto lo permettano le proprie risorse, bisogna abituarsi a vivere sobriamente e, se possibile, mettere da parte qualche cosa. Con queste nozioni elementari sono vissuto ottant’anni, non ho mai patito la fame, non ho mai avuto i conti in rosso e per di più sono riuscito a realizzare qualcosa, sempre a livello delle mie modeste risorse.

In Italia e nel mondo, purtroppo, non ci si è comportati così, specie negli ultimi tempi, e perciò ci troviamo inpelagati in un ginepraio di problemi da cui i responsabili del nostro Paese non sono ancora riusciti a tirarci fuori.

I politici, sempre preoccupati della popolarità e di non perdere la simpatia della gente, col pericolo di non essere rieletti, non potendo andare né più avanti né più indietro, si sono lavati le mani ed han chiesto a dei galantuomini tanto diversi da loro, esperti del mestiere e per nulla preoccupati della rielezione perché si erano guadagnati la vita lavorando e non chiacchierando a vuoto, di imporre a noi cittadini medicine amare ed interventi chirurgici dolorosi. Eravamo arrivati al capolinea e perciò non si poteva andare avanti ulteriormente.

Costretto a riflettere di economia finanziaria, per associazione di idee, mi son trovato quasi costretto a prendere in considerazione anche l’economia dello spirito. Non credo che da questo lato, che di certo è più importante della finanza, le cose vadano tanto meglio. In questo campo si vive alla giornata, si investe su “titoli spazzatura” emessi dagli imbonitori della materia, quali l’apparenza, i beni di consumo immediato, l’effimero, il successo comunque, il sesso disordinato, l’apparire, nella cercata e voluta illusione che le cose possano continuare sempre così.

Finora il buon Dio tenta di tamponare la falla immettendo nel “mercato” fior fiore di capitali sani, quali il tempo, l’intelligenza, il cuore. Pare però che il nostro mondo si illuda che si possa continuare all’infinito con questa vita fatua e allegra e continua a “bruciare” capitali su capitali.

Al Padreterno non serve un governo di tecnici che risanino la situazione fallimentare; infatti ci ha mandato a dire anche qualche settimana fa, in occasione della fine dell’anno liturgico, che presto ci sarà il rendiconto con quella richiesta che suonerà perentoria: “Ti ho dato cinque, tre, un talento; che cosa ne hai fatto?” .

E’ urgente e necessario che ci pensiamo prima che avvenga il tragico default! Perché questo si, sarebbe tragico e irrimediabile!

Il bell’esempio di alcuni esponenti dell'”alto clero”!

Io credo di non essere mai stato troppo tenero con i capi in genere, né con la gerarchia ecclesiastica e questo sia perché ho sempre nutrito il sacro terrore di ogni forma di servilismo, anche solamente verbale, sia perché mi pare di dover prendere seriamente il monito di Cristo “Non fatevi chiamare padre o maestro, perché uno solo è il vostro Padre e Maestro, quello del Cielo! Chi di voi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti”. Questa dottrina non l’ho inventata io, è parola di Cristo, anche se molti piccoli e grandi prelati pare che se ne siano dimenticati.

Detto questo però ho profonda venerazione e riverenza verso i capi della Chiesa che, una volta portato a termine il loro servizio, smettono le insegne, il linguaggio e lo stile dei preposti al popolo del Signore, riscoprono la vecchia tonaca nera, il “don” del popolo e continuano a servire umilmente, come semplici discepoli di Gesù, impegnati in parrocchia o in missione.

Sono andato a ripescare nella mia memoria e nel mio cuore alcuni prelati importanti che ho conosciuto direttamente o a mezzo della carta stampata, vivi o defunti, in occasione della lettura di un articolo di “Famiglia Cristiana” sul cardinal Tettamanzi, già arcivescovo di Milano. Il vecchio arcivescovo di Milano confida, in maniera candida e sorridente, al giornalista che lo intervista sul suo futuro: “Finalmente potrò fare il prete!”. Che bella affermazione, che gioia porta al cuore di un cristiano questa affermazione umile e santa! D’altronde il cardinal Martini, più vecchio ancora, una volta in pensione, ha ricominciato a studiare e a parlare così, con tanta semplicità, della fede e di Dio, tanto che forse nessuna delle sue omelie episcopali sono state così penetranti ed efficaci quanto le attuali confidenze spirituali che affida alla stampa.

E il nostro vecchio patriarca, cardinale Cè, che smesse la porpora, fa il maestro di spirito e accompagna alla ricerca di Dio tante anime assetate di spiritualità.

Una volta rimproveravo al mio patriarca di non avere mano ferma nel governo, solo ora ho capito la grandezza di questo uomo di Dio. Ora il mio vecchio vescovo è per me un punto di riferimento nella mia vita spirituale ed un pungolo per la mia coscienza di prete.

Fortunatamente anche “l’alto clero” offre ancora al popolo di Dio figure eminenti di pastori che, smesso il pastorale e la tiara, si mettono a far catechismo e a servire i poveri.

Sono proprio costretto a concludere che anche vescovi, arcivescovi e cardinali possono diventare santi.

“Le chiavi pesanti” del Papa

Qualche settimana fa ho visto in televisione il Santo Padre che ha avuto bisogno di una specie di passeggino su ruote per percorrere un paio di centinaia di metri nella basilica di San Pietro e nella piazza antistante. Il portavoce del Vaticano, con la consueta solerzia ed ipocrisia curiale, si è preoccupato di affermare che il Papa sta bene; dobbiamo quindi pensare che hanno costruito quell’attrezzo perché sta “troppo bene!”

Il Papa è vecchio, il Papa è stanco, la sua voce diventa sempre più flebile, tanto che quando lancia un monito, una condanna, sembra che pronunci una supplica!

Tanti anni fa ho letto una bellissima ed accorata biografia del giornalista Agasso su Paolo VI, il grande Papa che si portò nel cuore e sul volto l’angoscia e la sofferenza del mondo intero. Il volume che mi ha fatto versare calde lacrime di comprensione, di compassione e di amore nei riguardi di quel pontefice dalla mente onesta e lungimirante, ma dalla voce fessa, si intitolava “Le chiavi pesanti”. Credo che anche per il nostro papa Benedetto le chiavi di San Pietro diventino ogni giorno sempre più pesanti, tanto che pare che lo stiano schiacciando. Povero Papa, vecchio e stanco!

Papa Paolo VI fu un grandissimo Papa che seppe condurre la vecchia Chiesa, ingessata nello spirito e nello stile dell’ottocento, verso il giorno nuovo e a lui toccò la sorte di succedere a papa Giovanni XXIII, tanto amato e tanto popolare, il quale aveva fatto saltare il tappo, ma aveva però pure lasciato al suo austero successore una Chiesa in pieno guado tra una sponda da cui s’era staccata e l’altra verso cui stava tendendo.

A papa Ratzinger toccò pressappoco la stessa fatica, avendo dovuto succedere a papa Giovanni Paolo II, il condottiero indomito ed audace, l’attore capace di galvanizzare le folle e far sognare la Terra promessa ai popoli.

Sulle spalle curve e stanche del nostro Papa tedesco, fine teologo ed interprete acuto dei mali della Chiesa e del mondo, pesa tutta l’irrequietezza di un popolo di Dio che pare temere ancora un dialogo franco col mondo moderno e forse ancora non totalmente cosciente d’avere un messaggio che risponde pienamente alle attese degli uomini d’oggi.

Povero Papa, solo e affaticato, che sembra incerto se ritirarsi a pregare il buon Dio suonando il piano ed approfondendo la scienza di Dio, o continuare la sua via crucis in solitudine, forse non compreso e non amato quanto meriterebbe, anche dagli stessi membri della Chiesa di cui è capo e pastore.

Chi sfascia le città va fermato!

Vi sono eventi particolarmente forti che si affacciano all’attenzione dell’opinione pubblica, i quali mi turbano profondamente, mi mettono in crisi e mi indignano e creano in me un senso esasperato di sfiducia e di malanimo nei riguardi dell’organizzazione dello Stato, delle sue istituzioni e dei suoi responsabili. Ho poi la sensazione che l’opinione pubblica, esasperata per la marea di disordine sociale che ogni giorno le si rovescia addosso dai mass-media, finisca per abituarvisi e, dopo un momento di condanna, di rifiuto e di esecrazione impotente, finisca per voltar tristemente pagina, delusa e rassegnata.

A parte i disastri ambientali, dovuti pure all’incuria, all’irresponsabilità dei cittadini e degli amministratori pubblici – ma in questi casi c’entra pure la componente di fenomeni naturali non sempre controllabili – ci sono altri eventi che, pur talvolta ufficialmente motivati da ragioni ideali comprensibili e condivisibili, finiscono per permettere ad alcune schegge impazzite, irresponsabili e violente della nostra società, di scatenarsi con inaudita violenza e spirito di distruzione assurda contro tutto e contro tutti. Mi riferisco alla guerriglia che ultimamente s’è scatenata in occasione della ferrovia ad alta velocità in valle Susa e all’ultimo “sacco di Roma”.

I centri sociali sono risultati gli organizzatori e i protagonisti di questi fatti delittuosi contro le leggi dello Stato e contro il patrimonio pubblico e privato. Non riesco minimamente a capire perché non si chiudono questi covi della guerriglia e non si avviino a campi di rieducazione sociale gli irrimediabili. Forse lo Stato non ha i mezzi? Mi pare di no! Ripeto ancora una volta che sono stato quanto mai sorpreso dal gran numero di soldati e di mezzi che lo Stato ha a disposizione in occasione della parata del 2 giugno, voluta dal presidente Napolitano.

Io, ripeto ancora una volta, sono contrario alla guerra e perciò anche all’esercito, ma se proprio si pensa che non se ne possa fare a meno, perché non lo si adopera per fermare qualche migliaia di esasperati rompitutto?

A me lo Stato ha minacciato una multa perché ho fatto scrivere “Centro don Vecchi” sulla nuova struttura per anziani e sto aspettando da più di tre mesi l’autorizzazione a farlo, pagando una tassa, mentre a questi aderenti ai centri sociali si permette di sfasciare una città, far danni per milioni di euro, e di fronte a questa guerriglia urbana se ne prendono due o tre che poi la magistratura mette fuori dopo un paio di giorni.

E’ questo lo Stato di cui Napolitano ci invita ad essere fieri? I benpensanti e la sinistra o la destra mi dicano pure quello che vogliono, ma io non ci sto!

Il giudice Livatino, un esempio che dà onore alla magistratura

In quest’ultimo tempo ho avuto modo di leggere sulla stampa cittadina molti servizi sul giudice Livatino, il magistrato trucidato dalla mafia per la sua condotta integerrima coerente alla sua coscienza di cristiano e alla sua missione di amministratore della giustizia.

A vent’anni dalla tragica fine di questo servitore della società nel settore della giustizia e cristiano esemplare, gli organi di stampa hanno riacceso i riflettori sulla sua persona e sulla sua fine in occasione della scelta della Chiesa di iniziare il processo per la sua beatificazione.

La Chiesa ha un fiuto particolarmente attento nel presentare, come punto di riferimento per la società, quei discepoli di Cristo che possono diventare creature esemplari per quelle categorie della nostra società che annaspano nella nebbia e che sono in crisi per la perdita dei valori autentici la cui presenza dovrebbe essere di supporto alla nazione.

Io mi sento veramente triste e sconsolato leggendo, ogni giorno di più, la crescente critica ed accusa documentata agli uomini della politica. Nel mio animo il cittadino che si rende disponibile a lavorare ai massimi livelli per il bene comune, dovrebbe essere un modello ed un punto di riferimento esemplare per tutti i cittadini, mentre oggi, in realtà, questa categoria di operatori sociali, nel suo complesso, si sta dimostrando avida, parolaia, interessata, faziosa, inconcludente ed incline ad ogni compromesso: questo è uno scandalo, un sacrilegio esecrando!

Ma più ancora dei politici, i magistrati e tutti gli operatori della giustizia, dovrebbero essere le persone più integerrime, laboriose e sopra le parti, coloro che non solo amministrano con saggezza il codice civile e penale, ma che lo impersonano loro stessi.

Ora non capisco bene se per carenza di uomini e di mezzi, per un impianto giuridico pletorico, sorpassato ed inadeguato o per indolenza, spirito di parte, posizione di privilegio e sete di potere, sta di fatto che vi sono centinaia di migliaia, forse milioni, di cause inevase, processi infiniti, sentenze scandalose, poca serietà professionale, per cui avvengono fughe di notizie e, peggio ancora, di delinquenti emeriti, sperperi di denaro, partecipazione, fin troppo scoperta, a partiti politici.

Per questi motivi plaudo quanto mai la Chiesa che presenta figure emblematiche quali il giovane magistrato Livatino, o il politico De Gasperi, quali esponenti splendidi e gloriosi di quelle categorie di persone che oggigiorno arrischiano di squalificare in maniera irrimediabile corpi essenziali della comunità civile, quali sono la politica e la magistratura.