Ora spero nella rinascita del sogno della “Cittadella della solidarietà”!

Da un paio di anni sogno “La Cittadella della solidarietà”, ossia un piccolo borgo ove si tentasse di dare la risposta alle attese dei cittadini che sono in disagio per i motivi più diversi.

Vedendo il gran bene che si va facendo nel polo solidale del “don Vecchi”, nel quale ogni giorno decine e decine di volontari incontrano ed aiutano centinaia e centinaia di poveri, ho sognato che finalmente si potesse dar vita ad un qualcosa di organizzato e coordinato a livello manageriale.

Il gran campo non coltivato che costeggia il Centro “don Vecchi” mi sembrava il sito ideale per l’ubicazione, per la grandezza della superficie e per i mezzi di trasporto vicini. Non avevo neppure preoccupazioni di ordine economico, perché rifacendomi alla dottrina che supporta i grandi magazzini della solidarietà che operano al Centro – ossia che è importante impostare l’organizzazione in maniera tale che ognuno sborsi quello che può e il ricavato sia totalmente devoluto per mettere in atto altri servizi, strutture di solidarietà. Per questa scelta non solamente suddetto polo solidale non è in rosso, ma anzi in cinque anni è riuscito a creare 64 nuovi alloggi per gli anziani.

La Società dei 300 Campi, che pure è nata per beneficenza del vescovo di Treviso e che dovrebbe per statuto operare a vantaggio del popolo, preferisce lasciare il suo terreno incolto ed improduttivo piuttosto che dedicarlo ai concittadini bisognosi. Gli abitanti del quartiere, poi, si sono messi di traverso, preoccupati che “la poveraglia” non squalifichi il loro ambiente piccolo-borghese.

Ad un certo punto parve che il patriarca Scola ambisse a tradurre la sua crociata a favore del “gratuito”, ma i prelati a cui ha affidato il progetto non son parsi né troppo convinti né operativi, tanto che hanno lasciato passare i mesi senza concludere nulla. Ora poi che il Patriarca se n’è andato, anche le più deboli speranze sono del tutto svanite.

Io però credo ancora al motto latino “In spem contra spem” perché anche quando mi sono accorto che enti pubblici, banche e fondazioni mi hanno voltato le spalle, la Provvidenza non s’è per nulla scomposta; e infatti stiamo chiudendo la partita del “don Vecchi” di Campalto perfino in positivo.

Chissà che il mio giovane successore non faccia il miracolo! Caso mai io gli darò una mano offrendogli l’ultimo euro, memore del patriarca Agostini che disse a don Valentino Vecchi: «Parti, io ti assicuro che ti darò l’ultima lira!»

Il messaggio più vero per le generazioni che s’affacciano alla vita

A questo mondo ci sono ancora delle cose belle che mi fanno sognare, pur essendo ormai logoro e vecchio. Ne ho avuto prova quando ho appreso che due milioni di giovani si sono trovati a Madrid per incontrare il nostro vecchio Papa percorrendo centinaia di migliaia di chilometri per arrivarvi, dormendo per terra e mangiando male, eppure felici, dicendo a tutti la gioia e l’orgoglio della propria fede.

Quando penso che anche dalla nostra diocesi di Venezia ben mille giovani si sono uniti ai giovani di tutti i popoli della terra per dichiararsi, col sorriso sul volto, discepoli di Cristo! Allora mi son detto che non tutto è perduto, anzi per la Chiesa s’affaccia all’orizzonte una nuova primavera, nonostante le secolarizzazioni, le guerre disumane, gli scandali e i mille predicatori…. saccenti ed ostinati di nichilismo e di perversione umana e di ateismo militante. Quali sono oggi gli uomini della politica che si dicono apportatori di novità e detentori del domani, e i filosofi, i sociologi, gli uomini della cultura che riescono ad ottenere l’adesione e l’entusiasmo di tanta gioventù, quante sedi dei partiti, salotti della cultura o i detentori dei mass-media possono contare solamente su pochi fanatici pieni di supponenza e spesso anche di disordine interiore?

Una volta ancora debbo concludere che il messaggio di Gesù è il più vero, il più esaltante, quello che risponde meglio alle attese e ai bisogni più veri delle generazioni che s’affacciano alla vita e che non sono ancora state profanate dai cattivi profeti del nostro tempo.

Una volta ancora debbo affermare che noi cristiani dobbiamo essere convinti ed orgogliosi di possedere il messaggio più vero, più umano e soprattutto il messaggio per il domani.

Una volta ancora debbo ripetere che il cristianesimo non va vissuto in difesa , all’ombra del campanile, nelle serre e nel chiuso dei circoli, ma deve sempre essere all’attacco, presente ove si fa la storia, capace di dialogare e di proporsi a tutti senza complessi di inferiorità, senza paura della vita, del domani e soprattutto delle forze delle tenebre. Credo che Madrid sia la risultante di quel grido di battaglia di Papa Karol: “Non abbiate paura, spalancate le porte a Cristo!”.

I preti e le parrocchie che si muovono in questa ottica non soltanto non retrocedono, ma avanzano sereni.

Non abbandono il campo!

Ho un gruppo di giovani giornalisti che fanno a gara per pubblicare qualche notizia inerente le mie imprese e le scelte che faccio in rapporto agli eventi e alle questioni che coinvolgono la nostra società e la nostra Chiesa. Ognuno tenta di carpirmi la notizia che in qualche modo possa rappresentare uno scoop nel nostro piccolo mondo.

Alvise Sperandio ha avuto qualche indizio della mia volontà di passare la mano circa la presidenza della Fondazione, Pur avendogli detto che non c’era nulla di ufficiale a questo proposito e che i tempi non erano maturi, ha steso l’articolo ed in aggiunta il titolista de “Il Gazzettino” ha buttato giù il titolo ad effetto: “Don Armando lascia!”

C’era da vederlo: è scoppiata la “tempesta” nel solito piccolo bicchiere d’acqua. Residenti al “don Vecchi”, amici, ambienti ecclesiastici, si sono meravigliati di un presunto abbandono del “potere”. Le domande sono tante e varie, tanto che credo opportuno fare qualche precisazione. Io non abbandono il campo e sono deciso a portare avanti fino alla fine la mia visione del credere, la testimonianza che la solidarietà è una componente essenziale del vivere cristiano e che non basta l’enunciazione di princìpi, ma bisogna tradurre il messaggio in scelte concrete. Però ritengo da un lato di non avere più né la lucidità, né le risorse fisiche per stare al timone ulteriormente.

Dall’altro lato sono altresì convinto che bisogna far spazio ai giovani perché si misurino con la vita, perché riescano ad interpretare al meglio i tempi nuovi e perché essi hanno il vigore per battersi per i progetti in cui credono.

Io non voglio abbandonare ciò in cui ho creduto e in cui credo, ma desidero farlo in seconda linea, come supporto e come rinforzo, nella misura in cui si riterrà opportuno il mio contributo. Ho sempre ritenuto giusta la massima che “non si può essere uomini per tutte le stagioni” e di certo la mia stagione è ormai agli sgoccioli, e forse già tramontata.

Una nuova stagione per la Fede

Come ogni stagione ha la sua ricchezza di colori, di armonie e di bellezza, così sono convinto che avvenga nelle “stagioni” della fede.

Soltanto chi è vissuto a lungo si accorge delle primavere o degli autunni della fede. Il passaggio dall’estate all’inverno avviene in maniera lenta e graduale, per cui neanche ti accorgi delle mutazioni, ma alla distanza di mesi avverti che il paesaggio è profondamente mutato.

Una decina di anni fa s’imponeva all’attenzione del mondo cristiano la “teologia della liberazione”. Questo movimento di pensiero si è sviluppato in maniera sorprendente e rigogliosa tra le comunità cristiane del Centro America. Questa riflessione culturale, che ben presto lievitò anche la sensibilità sociale e cominciò ad aggredire anche la politica, si fondava sulla tesi che il messaggio cristiano aveva come compito principale quello di liberazione dell’uomo dai condizionamenti, dai soprusi dei governi e delle classi dominanti che avevano ridotto alla miseria e a condizioni servili i loro popoli.

Ben presto questo movimento di pensiero non solamente si diffuse tra il popolo e i sacerdoti delle parrocchie, ma coinvolse anche l’episcopato del Centro America.

La gerarchia è intervenuta ridimensionando questa posizione teologica. Il Cristianesimo è una risposta alla vita nella sua globalità, ridurlo ad un movimento di promozione sociale è certamente impoverirlo. Resta però il fatto che la libertà dalla miseria e dai condizionamenti politici per poter esprimere le proprie idee e poter incidere sulla vita sociale, fa parte delle legittime attese dell’uomo.

Questa mattina, la presa di posizione di Gesù, che fa proprie le affermazioni del profeta Isaia (“Il Signore mi ha mandato ad annunziare ai poveri il lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia”) mi ha riportato alla teologia della liberazione. Mentre le leggevo, mi è parso che queste parole siano proprie di una nuova primavera della fede e siano indicative di un’altra stagione di cui tutti dobbiamo tener conto.

Oggi l’impegno per “liberare l’uomo” dovrebbe essere un mandato del quale ognuno si senta investito, se vogliamo vivere coerentemente la stagione del nostro tempo.

Sono davvero sempre all’altezza del mio compito?

Alla domenica la mia chiesa è gremita quanto mai e fuori dalla porta ottanta, novanta persone partecipano all’Eucaristia. Quando chiudo il messale e prendo la parola per “incarnare” nelle nostre attuali problematiche esistenziali il messaggio di Dio, mi sento quasi paralizzato dalla responsabilità di trasmettere, integro e vitale, quanto il buon Dio ci va dicendo. Allora mi aggrappo allo schema che ho preparato durante la settimana, ma mi muovo in maniera rigida, senza riuscire a dare coloritura e calore personale ai pensieri della cui validità sono quanto mai convinto, che quasi sempre fanno cantare il mio cuore e che vorrei offrire nella maniera più elegante e personale ai fratelli di fede che mi ascoltano.

Tanto spesso l’attenzione, così disponibile, della mia gente, quasi mi spaventa sentendomi inadeguato ad offrire un dono così prezioso a persone tanto care e in ricerca della verità.

Sono frequenti le domeniche in cui mi sento deluso di me stesso ed amareggiato per non essere riuscito ad offrire in maniera viva e convincente le splendide proposte del buon Dio, sempre così vere, così opportune e così valide.

Durante la settimana, invece, quando in chiesa ci sono solo venti, trenta fedeli, la meditazione sulla Parola di Dio, anche se meno preparata, mi riesce più fluida e più personale. Ho l’impressione di usare tutte le corde del violino per trasmettere la melodia di Dio, dalle note basse e calde a quelle alte e penetranti. Ho la sensazione di dialogare con semplicità, con convinzione e spesso anche con tanto entusiasmo, perché i “passi” della Scrittura su cui vado meditando ad alta voce mi appaiono così attuali, saggi e convincenti. Sento di usare una disinvoltura che alla domenica, di fronte alla folla, non ho.

Continuerò a fare del mio meglio, ma supplico il Signore che colmi i vuoti e soprattutto dia calore e incisività alle mie povere parole spesso fredde e incerte.

La vecchia parrocchia volta pagina

La mia vecchia parrocchia volta pagina. Ogni comunità cristiana ha degli obiettivi ben fissati e la tradizione religiosa da secoli ha approntato soluzioni, iniziative e metodi pastorali, ma resta il fatto che ogni parroco porta le proprie peculiarità, si muove con uno stile personale, fa le sue scelte prioritarie.

Anche a Carpenedo, col cambio appena avvenuto del parroco, si è voltata pagina e la parrocchia, partendo dall’esistente, si proietta verso il domani.

Il rimpianto della comunità da cui arriva il nuovo parroco e le realizzazioni compiute, a tutti i livelli, fanno ben sperare. Da un colloquio iniziale con don Gianni ho avvertito una sintonia di intenti e di obiettivi; ci siamo trovati d’accordo, a livello ideale, sul fatto che l’impegno pastorale deve abbracciare tutto l’uomo, dato che la parrocchia non può ridursi solamente ad una comunità di credenti, ma deve tentare di essere una comunità umana fatta da gente che cammina assieme.

Secondo: pare che con don Gianni la parrocchia si “riappropri” del “don Vecchi”, così che questa istituzione non viva più come un’orfana, ma riabbia la madre che l’ha messa al mondo!

Terzo: il nuovo parroco pare d’accordo che le coordinate per la parrocchia siano la fede e la solidarietà come elementi inscindibili.

Non sarò certo io a dettare gli indirizzi al nuovo parroco di Carpenedo, ma il fatto di condividere con un giovane prete gli obiettivi pastorali, mi fa particolarmente felice e mi sprona ad una collaborazione e ad una disponibilità completa. Credo che alla parrocchia, che è stata anche definita “la famiglia delle famiglie” possa essere utile anche la figura di un vecchio nonno che, pur discreto e in disparte, possa offrire un consiglio, possa confortare ed aiutare chi è al timone e porta sulle sue spalle la grave e pesante responsabilità di guidare verso la Terra Promessa una porzione del popolo del Signore.

Questa prospettiva mi alletta e mi fa sognare una nuova avventura.

Bianco e… grigio

Qualche settimana fa due vecchi parrocchiani, che avevo sposato una quarantina di anni fa, e forse più, mi hanno chiesto di sposare la loro figliola nella chiesa di San Moisè a Venezia.

Ricordavo questa chiesa ai tempi del seminario, quando per andare a servire le funzioni religiose a San Marco, noi seminaristi partivamo dalla Salute, passavamo il ponte dell’Accademia per giungere finalmente a San Marco. A quei tempi non ci si poteva neppure permettere il lusso di passare il traghetto con la gondola. Passavamo davanti alla chiesa di San Moisè, un esempio peculiare non solo del barocco, ma del rococò più spinto. La facciata sembrava un traforo di statue, capitelli, decorazioni floreali, veramente un vespaio di marmo annerito dalle nebbie della laguna e dal guano dei colombi della vicina piazza San Marco.

Alcuni anni fa, fortunatamente, un ente di una nazione europea ha “adottato la chiesa” e con una operazione minuziosa di maquillage ne ha fatto una trina, un merletto quanto mai armonioso e piacevole.

Attualmente la vecchia parrocchia fa parte dell’unità pastorale con San Salvador, San Marco, San Luca, e perciò è parte integrante di questo piccolo consorzio di parrocchie e vi celebra un prete impegnato al Marciam.

Quello però che mi ha favorevolmente impressionato è stata la pulizia, l’ordine e il buon gusto con cui è tenuta la chiesa, ma soprattutto mi ha colpito un giovane accolito, che di professione fa il caposala in un reparto dell’ospedale San Giovanni e Paolo e che, pur abitando a Mogliano, cura la chiesa e i riti come ne fosse il primo responsabile. La cordialità, la convinzione, la competenza e lo spirito di servizio di questo giovane accolito, mi hanno veramente edificato.

Mentre sono rimasto negativamente colpito dalla confidenza che questo credente mi ha fatto in maniera totalmente innocente. Mi riferiva che un cardinale di Santa Romana Chiesa, quando veniva a Venezia, era solito alloggiare al Bauer, uno dei più costosi alberghi della città, che ha la porta nel campiello di San Moisè e, quando era libero, andava a suonare l’organo della chiesa vicina.

La chiesa ha un volto composto da tessere di svariati colori: c’è quella bella e bianca del giovane accolito e quella piuttosto grigia del cardinale del Bauer. Per fortuna il nero mette in risalto il bianco!

Lo sciopero dei divi del pallone

Verso la fine dell’estate, in piena crisi economica, in mezzo al tormentone della ricerca di soluzioni, che sono risultate difficili e drammatiche, per reperire i fondi che mettano al sicuro il nostro Paese dalla bancarotta, abbiamo avuto modo di stupirci ed indignarci, ancora una volta, per il comportamento dei divi del pallone.

La categoria dei saltimbanchi del calcio, una volta ancora, ha dato motivo di scandalo per non aver accettato di concorrere al salvataggio e al bene comune del Paese, contribuendo in maniera proporzionale agli stipendi scandalosi che percepiscono.

Il rappresentante di questa categoria ha minacciato di non dar inizio al torneo della serie A, e poi l’ha messo in atto. Al momento in cui sto fissando sulla carta queste riflessioni, non sono in grado di prevedere quanto durerà questa sconcezza.

Il sanguigno Calderoli finalmente, con lodevole franchezza, ha minacciato di far pagare una tassa doppia; volesse il Cielo che questo ministro ponesse in atto questa minaccia!

Per quanto mi riguarda credo che nei miei ottant’anni di vita, mai ho appreso con tanta soddisfazione la notizia di uno sciopero. I nostri calciatori sono scadenti, quando giocano con gli stranieri perdono sempre, hanno una vita sregolata, mortificano tutte le categorie di lavoratori percependo stipendi infinitamente più lauti anche di chi fa lavori più duri e più difficili: sarebbe veramente ora che nei nostri grandi stadi potessimo assistere alle partite dei nostri bambini o almeno dei calciatori dilettanti!

Cari calciatori della serie A, grazie, grazie tante per il vostro sciopero, vi prego, continuate a far sciopero per tutto l’anno. Il nostro Paese comincerebbe così a non aver tra i piedi una casta di approfittatori viziati, egoisti ed inconcludenti.

Sì alla misericordia, no ai cattivi insegnamenti

Ho capito ormai da tanto tempo che se non si vuole aver noie o non si vuole essere fraintesi, è sempre opportuno accodarsi all’opinione pubblica e non discostarsi dal pensiero della maggioranza. Però io non ci sto a questo costume, o peggio a questa moda, perché sono profondamente convinto che questo sia un comportamento di comodo, falso ed ipocrita. Anche dovendo pagare coscientemente il prezzo dell’isolamento e dell’incomprensione, ritengo doveroso dire, con rispetto ed umiltà, ma anche con onestà, il mio parere, pur sapendo che questo comportamento non scalfisce il pensare comune.

E vengo al nocciolo del problema al quale ho sentito il bisogno di fare questa premessa per non apparire un bastian contrario di professione o, peggio ancora, un integralista disumano.

Fino a un decennio fa la Chiesa rifiutava il funerale religioso ai suicidi, ai divorziati, ai peccatori pubblici e perfino ai comunisti; il tutto, credo, per affermare il dissenso e la incompatibilità tra il pensiero cristiano e quello che, almeno apparentemente, è opposto.

Ora s’è cambiato registro, si benedicono tutti, indipendentemente dal loro comportamento morale e religioso.

A me va più che bene! Gli antichi dicevano “Parce sepulto” e Cristo ci ha parlato del padre del figliol prodigo con le braccia spalancate al perdono.

Lasciamo il giudizio a Dio che “conosce i reni e il cuore”. Però fare un eroe di un suicida, parlare di creatura solare per chi è morto di droga, battere le mani a qualsiasi soggetto, presentare come una persona esemplare chi non ha mantenuto i patti di un impegno preso di fronte al proprio partner e soprattutto a Dio, mi pare tutt’altra cosa, che decisamente non condivido, perché vuol dire far confusione e soprattutto offrire un cattivo e fuorviante insegnamento.

Rispettare il dolore dei familiari, non arrogarsi il potere di giudicare, affidarsi e contare sulla misericordia di Dio è una cosa, ma dichiarare campione chi obiettivamente è uno sconfitto dalla vita, è tutt’altra cosa.

Tre interrogativi circa la crisi del matrimonio religioso

Se volessi cercare degli articoli di spessore che non solamente forniscano notizie, ma che approfondiscano e analizzino le cause che determinano gli eventi che il quotidiano registra, e le conseguenze di questi fatti, non dovrei cercare sul “Gazzettino”, ma su giornali di ben altro spessore e di tiratura nazionale. Il Gazzettino ha però la prerogativa di informare su ciò che soprattutto concerne le problematiche e la vita della nostra città.

Qualche settimana fa un titolo a cinque colonne ha attratto la mia attenzione fornendomi dei dati che, come sacerdote, mi preoccupano e che comunque mi pongono domande alle quali non mi posso sottrarre. Il titolo diceva esattamente: “A Venezia trionfano le nozze civili”, e poi l’occhiello specificava: “Prevalenza di cerimonie laiche (921) a fronte di 421 scambi di anelli con rito religioso”.

Immagino che in curia le varie commissioni per l’evangelizzazione e la pastorale, gli uffici per la catechesi matrimoniale, stiano studiando il problema per offrire delle soluzioni. Per intanto il problema resta. Da un lato mi rasserena il fatto che fino al Concilio di Trento pare che non esistesse quasi il “sacramento del matrimonio”, forse perché il solo fatto che due persone si amino, lo attestino in chiesa o in municipio, diventa comunque “sacramento”, ossia “segno” della presenza dell’Amore, cioè di Dio in mezzo a noi.

Detto questo però viene da domandarci perché i nostri ragazzi preferiscono i sindaco con la fascia tricolore al parroco con i paramenti liturgici?

Seconda domanda: come mai il Comune non pretende un corso perché gli aspiranti sposi imparino a volersi bene, mentre le parrocchie fanno a gara per allungare le “lezioni” di apprendimento, pur avendo quasi sempre pochissimi docenti e non qualificati?

Terza domanda: come poi i ministri del culto si rapporteranno con questi “cristiani” anomali per la Chiesa e con i loro figli?.

Questo mi pare il problema cruciale perché, d’ora in poi, si corre il rischio che i preti troppo “zelanti” siano tentati di togliere anche quel filo sottile che offre la possibilità ai nostri ragazzi di avere un minimo di formazione cristiana.

Ho paura che il tirar troppo la corda ancora una volta crei il pericolo di spezzarla. Io poi sono piuttosto diffidente nei riguardi di un cristianesimo troppo sofisticato, gli preferisco di gran lunga la versione popolare.

La politica dei rovi

Nota della Redazione: come sempre accade, questa riflessione è stata scritta molto prima dei recenti avvenimenti politici.

Io non sono colto né ho una buona memoria, però ogni tanto mi salgono, da ricordi lontani, delle verità che rappresentano per me quasi degli appigli a cui aggrapparmi quando tutto sembra precipitare.

Tante volte ho confidato alle pagine di questo diario la mia amarezza e il mio sconforto di fronte ad una società smarrita e confusa che annaspa disordinatamente ed in maniera ignominiosa tra la corruzione, l’ipocrisia, l’avidità e la prepotenza.

Non vedo rimedio se non in una vera e profonda rivoluzione morale, forse sarebbe meglio dire in una conversione globale, determinata da qualcosa che però non vedo ancora all’orizzonte, ma in cui spero.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere quel piacevole e sapiente brano della Bibbia in cui si parla per parabole della volontà degli alberi di nominarsi un re. Nascono però fin da subito le difficoltà: l’olivo rifiuta perché non vuole rinunciare all’olio, conforto degli uomini, il fico pure, perché non vede come andrebbe ad agitare i suoi rami senza poter più dare il suo dolce frutto; anche la vite rinuncia per non aver più la possibilità di offrire il suo vino, letizia degli uomini. Allora s’offre il rovo, accetta la corona e comincia da subito a sacrificare con le sue spine i colleghi rinunciatari.

La massima antica che dice “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” mi è parsa ancora una volta valida: finché gli uomini migliori, i docenti, i capitani di industria, i galantuomini e le persone per bene non si mettono in gioco, relegando in second’ordine i loro interessi, la loro quiete e il loro successo, noi in Italia continueremo soltanto ad avere i soliti spinosi e infecondi “rovi” a governarci e continueremo ad essere feriti dalla loro protervia, dall’arroganza e dal loro arrivismo. I colpevoli del malcostume imperante nei palazzi del potere è causato principalmente dai “rovi” ai quali abbiamo offerto la corona, ma anche dalla rinuncia degli onesti, dei capaci e dei galantuomini a porsi a servizio della nazione.

L’ingloriosa fine dei “potenti” che si schierano contro Cristo

Qualche giorno fa sono stato a Mogliano per celebrare il commiato cristiano per la mamma di una cara volontaria del “don Vecchi”. Assieme al vecchio parroco, che mi ha fatto arrossire perché, pur essendo quasi un mio coetaneo, è ancora “in servizio” ed è parroco da ben 35 anni sempre nella stessa parrocchia, mentre io ho ceduto le armi molto prima, abbiamo ricordato un suo vecchio predecessore, monsignor Fedalto.

Monsignor Fedalto, mestrino di nascita – ma a quel tempo Mestre era ancora sotto la diocesi di Treviso – è stato un famosissimo oratore, tanto che il parroco di Mogliano diceva che egli aveva predicato tantissime “missioni popolari”, “quaresime” e “avventi” a non finire.

A quei tempi, che corrispondevano alla mia adolescenza, quando un oratore di grido saliva in pulpito, faceva veramente scena, pestava i pugni, declamava, si commuoveva e faceva commuovere.

Ricordo di aver assistito ad una di queste prediche il cui tema di fondo era il “non prevalebrunt”, ossia le forze del male, per quanto insidiose e cattive, non avrebbero mai vinto e distrutto la roccia della Chiesa e la bianca figura del Papa.

Ricordo il vigore con cui l’oratore citava i nemici, che ad un certo momento sembrava avessero sconfitto ed umiliato la Chiesa, mentre invece erano finiti miseramente nella polvere. Aveva ragione don Fedalto, anche se lo gridava con voce tonante da oratore.

Che fine hanno fatto Mussolini, Hitler, Stalin, i persecutori della Chiesa del Messico o della Spagna? La stessa di Napoleone e di tutti i miscredenti che si sono succeduti nei secoli!

Ho pensato al sermone tonante di monsignor Fedalto leggendo la fine di Zapatero, il socialista miscredente ed anticlericale che, con perfidia e supponenza degna di miglior causa, ha nuovamente tentato di scardinare i valori morali, il costume e la fede degli spagnoli. Questo statista che ha sfidato la Chiesa e ora, con la coda tra le gambe si ritira, certo dell’inevitabile sconfitta; anch’egli sta facendo la fine di tutta quella gente boriosa che tante volte, durante i secoli, ha steso prematuramente l’atto di morte del cristianesimo.

In queste settimane ho pensato alla valanga di giovani di tutto il mondo che hanno invaso pacificamente e gioiosamente le strade e le piazze di Madrid. Spero che abbiano fatto capire a Zapatero che il domani è e sarà sempre di Cristo, mentre le forze del male delle quali egli è stato per qualche anno triste e melanconico portabandiera, sono destinate a sicura sconfitta.

Una carezza su un passato comune non sempre facile

Una persona mi aveva chiesto se poteva incontrarmi al “don Vecchi”. Al telefono mi aveva detto il suo nome e mi trattò in maniera confidenziale. Ma, un po’ perché ho poca familiarità col telefonino ed un po’ perché l’età ha logorato anche il mio udito, non riuscii ad inquadrare la persona. Quando ormai al “don Vecchi” non sapevo chi stavo attendendo e, mentre aspettavo, lavoricchiavo su “L’incontro”, qualcuno bussò alla porta; con sorpresa, incontrai uno dei primi cappellani che avevo avuto a Carpenedo.

Io sono arrivato in parrocchia in tempi cruciali, nel 1971, quando la coda della contestazione sferzava duramente la struttura e la mentalità della vecchia parrocchia di Carpenedo, che era vissuta per secoli sonnacchiosa e tranquilla, vicina, ma separata, da Mestre. Per conoscere il clima, basti sapere che il giorno dopo la mia entrata ufficiale, un gruppo di giovani venne in delegazione a chiedermi di sostituire la messa domenicale delle dieci con un’assemblea pubblica.

Fu dura, molto dura, anche perché i miei giovani cappellani tutto sommato non potevano che simpatizzare con i giovani della parrocchia. Io poi ero prevenuto, comunque sono stato sempre un resistente per natura. Ebbi la meglio, ma non senza ferite da ambo le parti.

Stamattina, incontrando il “giovane” cappellano con barba e capelli bianchi, che era venuto ad offrirmi venti azioni per il “don Vecchi” di Campalto, ho avuto l’impressione che l’età e la vita abbiano livellato e coperto ogni crepa e che gli ideali comuni abbiano ristabilito una comunione completa.

Sono stato molto felice di questo incontro e sono riconoscente a questo vecchio collaboratore che, seppure con stile e strade diverse, ha speso la sua vita per la Casa comune. Il tempo risana le vecchie ferite e quando c’è onestà di intenti e spirito di servizio si arriva sempre a comprenderci.

La visita di questo monsignore – perché il mio collaboratore, che ha fatto più carriera di me, è monsignore – l’ho colta come un dono ed una carezza su un passato non privo di difficoltà provocate dagli eventi ma anche dalla mia intransigenza.

Ricordo di un cristiano coraggioso

Ho parlato ieri della visita all’anziana mamma di uno dei miei “ragazzi” di un tempo.

Anche se ormai il mio ministero di sacerdote si svolge quasi esclusivamente al “don Vecchi” ed in cimitero, ben volentieri ho aderito ad accettare questo “lavoro straordinario”. E’ stato bello conversare con questa cara signora, da sempre riservata e di poche parole, ma ora ancor più, a causa dell’età avanzata e a qualche difficoltà a livello fisico.

Mentre conversavo amabilmente con questa creatura, vedova ormai da molti anni, mi tornò alla memoria un altro incontro ben più drammatico con un membro di questa cara famiglia. Il marito di questa signora occupò per anni un posto di primo piano nel sindacato – credo fosse segretario regionale della CISL. Quelli erano anni caldi per il sindacato e più ancora per quel sindacato, che s’era smarcato con coraggio dall’egemonia della CGL, cinghia di trasmissione diretta con Botteghe oscure.

Militare nella CISL, professare la propria fede, avere una posizione equilibrata da cristiani adulti nella Chiesa, non abbracciare una posizione costante da barricate, non era una cosa facile. Eppure quest’uomo, ancor giovane, fu un cristiano militante, libero e adulto nella fede. Un tumore lo aveva aggredito alla gola. Mi mandò a chiamare, mentre era ricoverato nel reparto di otorinolaringoiatria di Villa Tevere. Chiese lucidamente i sacramenti e li ricevette con fede e poi mi chiese di occuparmi dei suoi figli: «Il più grande, mi disse, mi pare che ormai cammini con le sue gambe, ma il più piccolo ha ancora bisogno di una guida quando non ci sarò più». Morì poco dopo.

I suoi figli crebbero in parrocchia come il padre desiderava ed ora sono due professionisti affermati e due cristiani seri. D’altronde, con un padre di quella levatura morale ed una madre parca di parole ma forte nella testimonianza, non avrebbe potuto essere altrimenti.

Oggi pare che la società e la Chiesa siano preoccupate dei giovani, mentre dovremmo essere più preoccupati che “le radici” familiari siano più ancorate sui valori più sacri e più basilari.

Si fa sentire sempre più la mancanza di un presidio pastorale del territorio!

Monsignor Vecchi, da cui ho appreso più di quanto non pensassi, era solito dirmi che quando nell’opinione pubblica ritornava di frequente un termine che definisce una realtà, significava che nella società se n’era persa la presenza e che il ritornarci sopra di frequente con i discorsi non denotava la presa di coscienza del suo valore, ma piuttosto la nostalgia o il vuoto della sua assenza. Ricordo che un giorno mi ha fatto questo discorso a proposito del termine “comunità” e in specie della parrocchia, che dovrebbe essere la comunità dei credenti in un certo territorio.

Da bambino e da adolescente nel mio piccolo paese di campagna infatti non si parlava mai di comunità, perché questo valore lo si viveva, conoscendoci tutti, ed essendo, tutto sommato, solidali “nella buona e nella cattiva sorte”. Io invece ho sentito ricorrere spesso a questo termine quando sono arrivato a Mestre, dove regnava sempre più l’anonimato, l’isolamento e l’individualismo e la presunta autosufficienza.

Mi è venuta in mente questa “lezione” qualche settimana fa quando uno dei miei “ragazzini” di tempi ormai lontani mi ha chiesto di far visita e di portare l’Eucaristia a sua madre. Questa anziana signora, cattolica praticante, da cinque o sei anni è costretta a casa con la badante, pur essendo seguita con tanto affetto dai figli. Le domandai se il suo parroco sapeva della sua infermità e, come mi aspettavo, non visitando le famiglie, lui era perfettamente ignaro di questa situazione.

Il cardinale Scola, ora ormai lontano da Venezia e quindi impossibilitato a realizzare i suoi progetti, spesso ripeteva che era convinto e voleva un presidio serio sul territorio. Ho l’impressione che ancora una volta purtroppo, mons. Vecchi avesse ragione: quando si parla di una realtà e questa non è più presente, il parlarne è semplicemente nostalgia e rimpianto, non più un progetto.

Più volte dal mio angolo remoto ho denunciato l’assoluta assenza di questo presidio pastorale sul territorio e il peggio è che non solo non c’è perché mancano gli uomini per il presidio, ma perché questo discorso elementare ed antico è scomparso dal manuale e dai progetti pastorali. I preti sono in ritirata ed hanno abbandonato le linee del fronte, rifugiandosi nelle sagrestie e nei convegni.