“La natura cuce e riordina tutto”

Un giorno scendevo dalla montagna in un’auto cosa che, come accadeva sempre; monsignor Vecchi l’aveva preso in prestito dai Coin, la strada tutta curve che partendo da Misurina porta a Mestre, quando notai, dalle parti di Longarone, una grossa ferita biancastra sul pendio tutto verde della montagna. Feci notare a Monsignore lo sgorbio, lo scempio sul manto verde formato dal bosco di alberi.  Era caduta una slavina, fendendo il verde e lasciando scoperte le viscere sassose della montagna.

Lo spettacolo di questa fascia scoperta quasi mi turbava, mi metteva addosso un senso di disagio tra tanta bellezza e armonia. Monsignore, con quel suo fare un pizzico paternalistico di uomo arrivato, mi disse: «Non ti preoccupare, Armando, se passerai fra un paio di anni, ti accorgerai che la natura cuce e riordina tutto».

Quante volte, ultimamente, ho pensato a questo discorso vedendo le due strisce di terra grigia che gli operai, avendo allargato il marciapiede in maniera incauta e trasandata, avevano rovinato il prato prospiciente alla mia terrazzina.

Ogni giorno guardavo lo screzio sull’erba quasi arrabbiato, ora però, alla distanza di qualche mese, la natura ha preso il sopravvento ed ha ricucito dolcemente la ferita.

Spessissimo rimango turbato per la perdita di un collaboratore, per il venir meno di una persona che ritenevo determinante nell’ecosistema del mio piccolo mondo. Ho l’impressione che mi manchi la terra sotto i piedi, di non poter andare più avanti, che crolli qualcosa che ho costruito con tanta pazienza e tanta fatica.

Invece no! Il tempo, la natura, la Provvidenza ricuciono pian piano; talvolta, il posto che è rimasto vuoto lo rinnovano, e lo fanno più bello e più efficiente di prima!

Quando andavo a scuola spesso mi sono sentito ripetere: “la storia è maestra di vita”. Ne sono convinto, il guaio però è che anche i maestri più preparati, più intelligenti, corrono il rischio di fallire se trovano uno scolaro somaro!

La storia e il libro della vita mi hanno messo sotto il naso degli ottimi insegnamenti e soltanto ora, che è tempo di metter via la cartella perché sta suonando la campanella della fine lezione, mi pare di incominciare ad imparare qualcosa.

Un ruolo non facile

Qualche giorno fa un signore, dall’apparenza ancora giovane, vedendomi procedere un po’ faticosamente sotto il peso di un grosso annaffiatoio, ha insistito per sostituirmi nel compito di annaffiare le piante che abbelliscono l’ingresso della vecchia chiesa del cimitero. Dopo qualche tentennamento, fatto più per cortesia che per convinzione, accettai molto volentieri l’offerta del nuovo “buon samaritano”.

Il giorno dopo mi ripeté l’offerta, dicendomi che egli veniva ogni giorno al camposanto di buonora per “salutare” sua moglie.

M’ero già accorto di come fosse, anche fisicamente, sconvolto da un lutto recente. Questa mattina mi parve doveroso aprire un dialogo meno formale con questa persona tanto disponibile e tanto cortese. M’accorsi subito che egli mi conosceva bene, ma mi capita di sovente di incontrare persone, a me assolutamente sconosciute, che si rivolgono a me, quasi mi conoscessero da sempre. Da molto imputo questi strani rapporti alla lettura del “diario” in cui io “spiffero” senza alcun pudore le mie cose.

In questo caso però non era solamente così; egli mi conosceva fin dai tempi di San Lorenzo, quando con monsignor Vecchi abbiamo tentato di dare risposte nuove alle tensioni che nel sessantotto avevano sconvolto gli schemi mentali della nostra gente, e in particolare dei giovani, ma soprattutto dell’articolazione, allora molto statica, dei gruppi parrocchiali.

Questo signore, ormai più che sessantenne, era stato, ai tempi di don Vecchi, il presidente del “Club della graticola”. Il club era una specie di movimento molto libero per i giovani maturi che ruotavano attorno alla parrocchia, mentre io a quel tempo mi occupavo del “Gruppo del martedì”, un gruppo giovanile di adolescenti, o poco più.

La conversazione, quanto mai cordiale, rievocò le ormai vecchie “avventure”. Guai ad una parrocchia che non si evolve, non s’aggiorna, non cresce. Ora tutto appare tanto statico ed ingessato!

Questo “giovane di ieri” mi confessò che monsignor Vecchi allora mi riteneva la sua coscienza critica. Ciò mi fa pensare, infatti qualche giorno fa lo scrissi, in merito ad una certa questione, al vescovo ausiliare: gli dissi che così mi sentivo di parlargli e che mi ascoltasse esattamente come “coscienza critica” della Chiesa veneziana. Non è questo un ruolo comodo, e un ruolo che non mi sono scelto, ma che mi ha imposto il mio sentire cristiano!

Che sia faticoso e pericoloso l’ho capito da un pezzo, spero però di non aver fatto una scelta sbagliata.

L’insegnamento di mio padre

Mio padre, soprattutto nel periodo della sua vecchiaia, manifestò nei miei riguardi e nei riguardi dei miei fratelli, sentimenti di grande comprensione e grande tenerezza.

Mio padre fu una bella figura di uomo, un lavoratore indefesso, che rimase a galla e mantenne la sua famiglia nonostante i tempi duri della guerra, lavorando prima come carpentiere e, dopo, come artigiano, nella sua piccola falegnameria.

La morte lo colse al lavoro. Aveva appena acceso le luci della sua bottega e preparato gli arnesi per il lavoro di ogni giorno, quando una sincope gli permise appena di chiedere il parroco per una benedizione, prima di partire per il Cielo.

Soprattutto mio padre non si scoraggiava mai, anche nei momenti più difficili. Sperava contro ogni speranza e sempre, magari all’ultimo minuto, gli andava bene. Crebbe, infatti, sette figli, dando ad ognuno di noi una seria educazione e le capacità di vivere in maniera autonoma e positiva.

Talvolta, quando mi pare di rimanere solo, senza appoggi e collaborazione, ricordo un suggerimento, un po’ faceto, ma che si è dimostrato sapiente nelle mie vicende personali. Un giorno mi lagnavo perché non trovavo quella collaborazione della quale mi pareva di aver assoluta necessità, e lui mi rianimò dicendomi: «Sii tranquillo e fiducioso, Armando, perché su quaranta o cinquanta membri di ognuno dei tuoi gruppi parrocchiali, troverai sempre due o tre elementi che hanno la mania di lavorare!»

Posso affermare con sincerità che quando mi sentivo più solo e nel pericolo di essere soccombente, magari all’ultimo momento, ho sempre trovato qualcuno con la “mania di lavorare” e con l’aiuto di questi “maniaci” sono sopravvissuto, ho realizzato delle belle imprese e sto ancora combattendo per un mondo migliore. Benedetto papà!

Non è facile sintonizzarsi sulla voce di Dio

Non troppi conoscono le mie avventure radiofoniche. Da sempre sono stato convinto che non ci si può limitare ad annunciare lo splendido messaggio di Gesù nelle sagrestie, nei patronati, all’ombra del campanile o ai pochi devoti che vengono ancora ad ascoltare le nostre prediche, spesso noiose, ripetitive e monotone.

San Paolo, pur essendo vissuto duemila anni fa, è maestro nell’insegnarci che non ci possiamo dar pace finché non offriamo ai quattro venti la bella notizia della liberazione, della redenzione e della salvezza.

Una trentina di anni fa, dopo un breve, parziale e solitario tentativo di monsignor Vecchi di dar vita ad una “radio privata” – come si diceva allora – iniziai la mia avventura radiofonica a livello pastorale.

Non sto a ripetere le vicissitudini avventurose, ma esaltanti, di quella che chiamai, per amor di patria, “Radio Carpini”.

Il sogno, che pian piano diventò, con infiniti tentativi e sforzi, progetto, era ambizioso ed aveva iniziato a prendere forma: tre studi di registrazione e di messa in onda, una regia automatica, quasi una decina di ripetitori locali, l’emittente principale sul monte Toront, quasi duecento volontari, un collegamento in diretta con Radio Vaticana, un settimanale con i programmi.

Poi tutto naufragò per i costi insopportabili, perché clero e laicato della diocesi rimasero passivi, non volendosi avventurare in “terre e cieli sconosciuti”.

In questi giorni pensando alla Radio Vaticana, che nei primi tempi prendevamo sulle onde lunghe e per la quale occorreva infinita pazienza nella ricerca di metterci in sintonia, perché la voce andava e veniva a causa degli eventi atmosferici, ho avuto l’impressione che ci voglia la stessa pazienza, la stessa fatica, per sintonizzarci sulla voce di Dio, per comprendere con lucidità i suoi messaggi, per ascoltare la sua voce. Senza un’autentica passione, ben difficilmente possiamo ascoltare la voce di Dio tra le mille voci che ci giungono da ogni dove, spesso voci fracassone, invadenti e banali, mentre Dio si fa sentire con delicatezza, nell’assoluto silenzio, motivo per cui solamente chi la ricerca con cuore sincero può ricevere la sua parola di conforto e di sostegno.

Politica italiana: critiche giuste o invidia?

Io amo circondare il mio animo di uomini nobili, e riempire il mio cuore di fatti edificanti e belli, però non posso non incontrare direttamente o attraverso la lettura dei fatti della vita, anche i personaggi loschi, sanguinari, i tiranni che hanno disonorato l’umanità.

Nei miei ottant’anni di vita ho conosciuto direttamente la ferocia di Stalin che sterminò, a decine di milioni, chi non aderiva alla sua rivoluzione russa, la spietatezza del caporale Afolf Hitler, che non esitò a mandare nelle camere a gas oppositori tedeschi della sua politica, ebrei di ogni paese, zingari, alienati mentali e antinazisti di tutta l’Europa, che riuscì ad invadere con le sue armate.

Ho pure conosciuto i “satrapi” spietati e sanguinari di certi paesi africani (alcuni addirittura accusati di antropofagia), o del Centramerica, personaggi stravaganti, ma sempre sanguinari. Ho incontrato dittatori sprezzanti della libertà e della democrazia, come Mussolini, Franco, Peron, Ceausescu e, purtroppo, tanti altri più o meno noti. Come conosco, purtroppo, i dittatori viventi, le cui colpe sono meno note, ma che temo non tengano in nessun conto la dignità, la libertà e la vita dei propri connazionali (qui non faccio i nomi, perché credo che non serva, sono sotto gli occhi di tutti).

Talvolta però, sentendo la violenza verbale di certi solisti, come Bersani, Di Pietro, Franceschini, Bindi, e di qualche altro, oltre il coro di sottofondo a questi solisti, mi domando: “Ma il nostro Berlusconi appartiene proprio alla categoria dei governanti da iscrivere nel libro nero della storia come le invettive e le accuse dei suoi attuali oppositori pare vogliano farci credere con le loro quotidiane e spietate condanne?”

Che Berlusconi abbia fatto tanti soldi in poco tempo, è vero! Che sia un marito infedele ed un uomo per nulla morigerato, è vero! Che abbia un tono da sbruffone e “facciotuttoio”, è vero! Che possegga strumenti per imbonire l’opinione pubblica, è anche vero! Però, che lo si debba mettere alla stregua dei più spietati dittatori, ho qualche dubbio! Anzi, talvolta temo che i suoi oppositori siano piuttosto invidiosi, per non saper fare con le loro chiacchiere, ciò che lui riesce a fare.

Non dobbiamo mai dimenticare le nostre colpe

Questa pagina del mio diario non posso iniziarla che così: “messa e sermone”, dopo il pomeriggio passato nella villa degli armeni ad Asolo. Anche se volessi fare altrimenti non sarei capace di farlo.

Il sermone sulla pagina di Luca che narra la parabola del ricco Epulone che “indossava vestiti di porpora e di lino finissimo ed ogni giorno si dava ai banchetti, mentre un povero di nome Lazzaro stava alla porta, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco” mi riportava agli occhi e al cuore la stupenda villa asolana del cardinale di Venezia, il patriarca Contarini, e la fila di settecento poveri diavoli che ogni settimana vengono negli scantinati del “don Vecchi” per portarsi a casa, nelle borse di plastica, i generi alimentari che le catene degli ipermercati e le fabbriche alimentari non riescono più a commercializzare.

Fatalmente l’Epulone aveva il volto del ricco cardinale veneziano che poté costruirsi una villa in una posizione incantevole per godersi il fresco che scende dal Piave e dal massiccio del Grappa, per trascorrere i mesi estivi lontano dal “soffego” della laguna; e Lazzaro il volto coperto dal “chador” delle donne del Marocco e della Tunisia, di quelle dell’est d’Europa e degli extracomunitari che non riescono a trovar lavoro e vengono al “don Vecchi”, perfino mal sopportati dagli abitanti del quartiere don Sturzo.

Il guaio poi fu che la coscienza mi spinse a pensare che pure io e noi cristiani che abbiamo tutto – dal cibo alla casa, dalla speranza al messaggio del Vangelo, dalla pace al bel sole del nostro Veneto -, magari inconsapevolmente finiamo per indossare gli abiti dell’Epulone per nulla preoccupati della fame e della miseria dei tanti Lazzaro del mondo, che abitano, da Haiti all’India, dall’Africa alle mille altre contrade del mondo e quindi meritevoli del “tormento degli inferi”!

Ho finito per dire a me stesso e ai miei fedeli che non dobbiamo solo preoccuparci e batterci il petto per le colpe del cardinal Contarini, ma anche per le nostre colpe personali, a motivo dell’opulenza e della miseria ancora presenti nella società di oggi.

Riflessioni asolane

Qualche settimana fa sono ritornato ad Asolo dopo quasi cinque anni. Uscendo dalla parrocchia, ho lasciato non solamente il cuore ad una comunità che ho amato più di me stesso, perché per essa ho affrontato fatiche, sacrifici e rischi di ogni genere, ma ho lasciato pure quelle “creature” alle quali avevo dato vita: il Germoglio, il patronato, il Foyer, il Ritrovo, il Piavento, la Malga dei faggi e, soprattutto, Villa Flangini, la stupenda struttura sui colli asolani.

Quest’ultima mi sembrava il fiore all’occhiello, a livello di struttura pastorale: una splendida villa del 1700, ch’era stata la dimora estiva del cardinal Flangini, patriarca di Venezia. Una dimora da Cardinale, quindi!

Da un rudere, dopo decenni di abbandono ed incuria, ne abbiamo fatto una dimora principesca per le vacanze estive per gli anziani. Ho recuperato mobili e quadri, ristrutturato il ricovero degli arnesi facendone il salone del caminetto, il granaio – che divenne il salone dei congressi -, la stalla, trasformata nel bar-ritrovo, il fienile, in cappella. Abbiamo riordinato i sentieri. Riportato quindi, e superato, l’antico splendore.

Con l’uscita di scena non ho avuto più coraggio di rivederla, per timore di lasciarmi sopraffare dalla struggente nostalgia.

Quando, qualche sera fa, mi sono recato ad Asolo in Villa Contarini, comunemente conosciuta come “La villa degli armeni”, per una estemporanea di pittori noalesi, a favore del “don Vecchi” di Campalto, ho riscoperto la magia di Asolo, il paese dei cento orizzonti, restando perfino sorpreso che il vescovo dei patrizi veneziani Contarini vi avesse costruito una dimora ancor più bella del suo successore, il cardinal Luigi Flangini, e che l’imprenditore noalese di motociclette l’avesse ristrutturata, abbellita e arredata in maniera ancor più sontuosa del vecchio cardinale.

Chi vuol vedere l’anticamera del Paradiso non ha che da chiedere al signor Silvano Beggio di poter visitare la sua villa di Asolo!

Debbo pur confessare che durante il pomeriggio, passato a scoprire le sempre nuove insuperabili angolature dei colli asolani e delle sue splendide costruzioni, più di una volta ha fatto capolino nella mia coscienza il sermone sul ricco Epulone e Lazzaro, che m’ero preparato per l’indomani. Ho cercato, a mia scusa, il fatto che io avevo acquistato la villa per i miei vecchi, che non si potevano concedere la villeggiatura; non so però come i signori Beggio mettano in pace la loro coscienza!

Si sta banalizzando la vita e pure la morte!

Io sono nato in un paese di campagna in cui le vicende di ogni componente della comunità erano largamente condivise, motivo per cui nessuno rimaneva mai solo di fronte ai gravi eventi della vita e ciò che avveniva formava la coscienza dei membri della comunità. Credo che nonostante il passare degli anni non sia mutato questo atteggiamento.

Ora, dati gli anni che ho, è un pezzo che non ritorno nel mio paese natio, ma ricordo che l’ultima volta che ci sono ritornato per un funerale di un parente, la chiesa era gremita e l’intera comunità, direttamente o indirettamente, ha partecipato all’evento. Mentre ora in città le cose non vanno proprio così; ogni evento, anche il più importante della vita, viene vissuto sempre più in una assoluta solitudine, viene banalizzato come un fatto scontato e pressoché insignificante.

M’è capitato, qualche tempo fa, un fatto spiacevole. Parlando con una figlia che aveva perduto il padre, a cui si diceva veramente legata e che mi descriveva come un uomo di valore, lei dapprima mi fece capire abbastanza esplicitamente di “farla il più breve possibile”, poi mi disse che sarebbe venuta lei sola, terminando col chiedermi: «Non si potrebbe fare il funerale a porte chiuse?» A me parve di intendere che dei membri della sua famiglia nessuno avesse potuto intervenire, per motivi a me sconosciuti, ma certamente plausibili. In realtà venne lei sola. Fortunatamente c’era in chiesa qualche fedele, perché la celebrazione avveniva durante una messa d’orario; altrimenti saremmo stati solamente lei ed io a dire grazie al fratello che se ne andava e a pregare il buon Dio che gli desse pace nella vita nuova.

Oggi si parla tanto di socialità e di solidarietà però, se le cose vanno così, la vita e la morte diverranno sempre più un fatto banale ed insignificante.

Che delusione il dialogo col Comune per avere i viveri in scadenza degli ipermercati!

Credo che la mia guerra col Comune di Venezia, perché ci ottenga dagli ipermercati della città i viveri in scadenza, potrebbe diventare più lunga di quella “dei trent’anni”, senza però arrivare ad alcun risultato.

Finora non ho ottenuto che promesse e delusioni. Ora infine ho capito che non ho neppure davanti a me un “nemico” con cui poter incrociare le armi; esso s’è dileguato tra le nebbie dense e cupe della laguna ed è totalmente evanescente o, forse peggio, inconsistente, col quale è perfino impossibile scontrarmi.

Pensavo che il problema dei più poveri fosse di pertinenza dell’assessore alla sicurezza sociale, poi costui m’ha fatto intendere che toccava a quello del commercio. Intanto il tempo è passato tra una promesse ed una delusione.

In questi giorni finalmente ho incontrato il nuovo assessore al commercio, che pensavo si fosse fatto carico dei progetti e delle promesse del suo predecessore. Invece no! Così ho finalmente capito che la mia non era solamente una battaglia perduta, ma una disfatta a cui non può che seguire una resa senza condizione e senza neppure l’onore delle armi, perché non so neppure più con chi dialogare e combattere. Siamo a Caporetto!

Mi spiace di non poter recuperare tonnellate di generi alimentari che andranno a finire tra i rifiuti, creando ulteriori problemi per lo smaltimento. Ma mi spiace di più che la Serenissima stia in maniera vistosa ed inesorabile avviandosi al disfacimento, trascinando nell’abisso anche Mestre, la sua città satellite e sobborgo, che pur meriterebbe una sorte migliore. Quello che non è ancora riuscita a fare l’acqua alta, lo fa l’amministrazione comunale.

“Ama Dio e il prossimo come te stesso”, la mia bussola nel buio

Com’è bello leggere nella Bibbia il dialogare del Signore con i suoi profeti. Javè fa dei discorsi chiari, comprensibili e concreti. Gli uomini di Dio lo interrogano un po’ su tutto ed Egli parla loro con chiarezza cosicché, anche se chiedeva cose impegnative, essi potevano orientarsi con sicurezza.

Ora s’è tutto terribilmente aggrovigliato, uno scroscio di parole, di sentenze e di verità autentiche o presunte si rovesciano su di noi avvolgendoci in una nebbia spessa, per cui annaspiamo senza sicurezze.

Anche restando nell’ambito religioso, le opinioni, le interpretazioni e le sentenze sono così diverse e contrastanti da far si che ci sentiamo dentro un labirinto senza, almeno apparente, via d’uscita.

Da tanto tempo cerco di tenermi ben lontano dal filosofeggiare, dalle complicate e sapute esegesi e dalle ricerche della teologia tanto spesso macchinose ed incomprensibili.

Io non ricordo molto di Cartesio, il filosofo che ho incontrato durante il liceo. Di questo filosofo ricordo una sentenza o un passaggio sul suo modo di interpretare la vita, la storia, il mistero in cui si fa cenno alle “idee chiare e distinte”.

Tento di portare avanti nel mio intimo un processo di semplificazione per ridurre la verità all’essenziale e per proporla alle persone che con me cercano verità e salvezza.

Gesù molto spesso mi è d’aiuto per conoscere senza perplessità la volontà di Dio; quanto gli sono riconoscente per quel suo riassuntivo “Ama Dio e il prossimo come te stesso” e sarai salvo. Questo comandamento è per me una bussola che segue il nord e perciò, quando il cielo si fa scuro, tiro fuori la mia bussola, di facile lettura e, nonostante i dubbi, le mille incertezze e i diversi suggerimenti, mi affido alle parole che Dio ha fatto dire al suo Figlio: Per me l’amare Dio e il prossimo sono “verità chiare e distinte” che mi bastano e alle quali mi affido come ad un salvagente.

Al Don Vecchi vogliamo bisogna essere sognatori!

Sono sempre più convinto che il “don Vecchi” viva ancora nella cornice dell’utopia e temo quanto mai che ne esca.

Qualche giorno fa ha iniziato il suo inserimento per una collaborazione un giovane pensionato. La morte prematura della moglie, il pensionamento ad un’età relativamente giovane e, soprattutto, le sue radici culturali maturate nell’associazionismo di una comunità parrocchiale – oltre l’incontro con questo vecchio prete che va costantemente “alla pesca” di uomini per la solidarietà, l’hanno fortunatamente spinto a questa decisione.

Il passato lavorativo di questo signore è partito dalla laurea in scienze politiche, per portarlo alla funzione di amministratore delegato di un’azienda collegata ad una grande società petrolifera che opera in tutto il mondo. Io ci vivo dentro al “don Vecchi” e perciò mi sono abituato alle sue vicende, alla sua amministrazione assai leggera, concentrata su un “vecchio” ragioniere e su un vecchio prete imperdonabile sognatore, con qualche leggerissimo ausilio da parte di anime generose, ma impegnate in mille altre faccende.

Non avevo previsto l’impatto tra l’esperienza di un manager con l’avventura amministrativa e gestionale di uno staff minuto di creature che sognano un mondo nuovo. Di primo acchito ha compreso che tutte le mansioni previste in un’azienda di qualche consistenza poggiavano solamente su un paio di “avventurieri” (si fa per dire, con termine improprio). D’istinto gli venne da far osservare che bisognerebbe assumere almeno un direttore, un’assistente sociale, un geometra, un economo, un addetto alle relazioni pubbliche e probabilmente anche altro!

Dovetti ricordargli che al “don Vecchi” vivono anziani che con cinquecento euro di pensione debbono pagare l’affitto, luce, gas, medicine, tassa rifiuti, telefono, acqua calda, acqua fredda e spese condominiali, persone che hanno poi il vizio di vestirsi, lavarsi, mangiare e, talvolta, anche ammalarsi!

Credo che abbia capito! Al “don Vecchi” si assumono solo sognatori e gente che crede nell’utopia che anche gli anziani poveri hanno diritto alla vita.

Il mio insuccesso

I miei successi personali hanno fortunatamente come risvolto positivo il costringermi ad essere più tollerante e comprensivo nei riguardi degli sforzi che le singole comunità cristiane e la Chiesa italiana compiono per generare l’uomo nuovo.

Quando il fariseo Nicodemo – il quale avvertiva che Cristo aveva un messaggio valido per la vita, ma tentennava per incertezza e titubanza – si decise, ma solo di notte, ad andare a incontrare Gesù, questi gli disse che ha la vita se non chi nasce nuovamente.

Il discorso di Gesù lasciò perplesso questo povero galantuomo, tanto da spingerlo a fargli la domanda banale; come avrebbe potuto quest’uomo nuovo recuperare il processo fisico avvenuto con la nascita. La rinascita di cui parla Cristo consiste nel nuovo modo di vedere la vita, di interpretarla, di dare alle sue varie espressioni il valore che si rifà al Vangelo, non a quello della tradizione atavica, dell’opinione pubblica o dei mass media.

L’uomo nuovo è quello che accetta la profonda rivoluzione che fa subentrare all’individualismo l’altruismo, all’egoismo la solidarietà. L’uomo nuovo è quello che fa suo il Vangelo di Gesù predicato da Lui con la sua parola e con la vita.

Avevo sperato, con l’infinito ripetermi su questi concetti nei miei sermoni, e con la mia seppur povera testimonianza, d’aver pensato più agli altri che a me stesso; il fatto poi che a più di ottant’anni i miei coetanei mi vedano ancora impegnato per aiutarli, speravo avesse fatto breccia; speravo che questo modo di agire, diverso da quello corrente, avesse toccato le loro coscienze. Invece mi pare che li abbia scalfiti un poco, ma molto poco; ho l’impressione che pensino soprattutto a se stessi, ai loro vantaggi, al loro benessere, ai loro figli e alla loro famiglia. Di certo il “Don Vecchi” non è abitato da “uomini e da donne nuove”.

Stando così le cose bisogna che impari ad essere più cauto nel pretendere che gli altri riescano in quello in cui io ho fallito.

Il coraggio del nostro Patriarca

Io seguo, come sempre, da lontano le imprese del mio vescovo, ma per questo non è che non le segua e non mi senta coinvolto meno di quei miei confratelli che non possono sopravvivere se non sotto le sue sottane.

Non è che neanche al Patriarca tutte le ciambelle riescano col buco, ma sempre più spesso fa centro non solo nelle gare di “patronato”, ma anche nelle competizioni regionali, nazionali e perfino internazionali.

Ho l’impressione che tanto più alto è il livello delle persone che sono coinvolte nei suoi interventi, tanto meglio il nostro Patriarca riesce ad offrire contributi credibili e condivisibili.

Avevo letto con interesse ed attenzione l’apporto di pensiero che ha offerto recentemente alla Regione, poi qualche giorno dopo mi è capitato di vedere la registrazione dell’evento mandato in onda da Telechiara, l’emittente televisiva delle diocesi del Triveneto. Il Patriarca mi è apparso brillante, convincente ed originale nel proporre soluzioni avanzate ed innovative nei rapporti tra le diverse fazioni politiche che in questo momento si scontrano, si insultano con un linguaggio da portuali e da donne di strada.

Il discorso sulla “etica civile”, sui valori condivisibili, ho l’impressione che abbia fatto breccia sui costituenti la “carta fondamentale” del Veneto. Mi è rimasto però il timore che la Lega sia interessata ad un passaggio fra il paganesimo celtico iniziale e la cristianità e che il cosiddetto Popolo della libertà abbia più che mai bisogno del consenso di quello che è rimasto della Vandea d’Italia.

Sono grato al Patriarca per il suo coraggio, per la sua abilità e per la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda del mondo che conta!

Anche una “cena di lavoro” per coltivare l’utopia della Cittadella della Solidarietà

Il Patriarca, tra i suoi mille impegni nazionali e internazionali, ha perfino trovato il tempo per accorgersi dell’utopia di un suo vecchio prete in congedo, che sta sognando una Chiesa che si prenda di petto, ma alla grande, il problema dei cittadini stranieri ed italiani più in difficoltà.

La “Cittadella della solidarietà” dovrebbe diventare, almeno per il piccolo drappello che sta seminando questa bella avventura evangelica, una risposta globale alle attese diversificate dei poveri della nostra città.

L’utopia, come tutti sanno, non è ancora un progetto definito con piani attuativi o finanziamento acquisito, non rappresenta quindi una realtà della quale si stanno gettando le fondamenta, ma non è neppure una chimera o tanto meno una fata morgana, che qualcuno pensa di intravedere, ma che in realtà è solo una illusione ottica.

Il Patriarca, successore di uno dei pescatori di Galilea, ha giustamente deciso di ordinare al suo più diretto collaboratore: «Getta la rete in mare!» Il vescovo ausiliare l’ha gettata nella forma più moderna, organizzando una “cena di lavoro” a Villa Visinoni di Zelarino, invitando i principali operatori della solidarietà. La cosa è stata per un certo verso interessante, perché nei miei 81 anni di vita, non sapevo che cosa fosse una cena di lavoro. Ora l’ho finalmente capito: uno parla e gli altri mangiano! A parlare è stato Andrea, il mio vecchio lupetto e il mio portavoce per quella occasione: l’ha fatto brillantemente, mentre tutti gli altri stavano a mangiare.

Ho capito però quello che già sapevo: al massimo – ma non è neanche questo del tutto scontato – ci permetteranno di realizzare noi la “Cittadella della solidarietà”. Ho compreso inoltre che ci vorrà forse un altro secolo perché la Chiesa veneziana realizzi una sinergia di impegno superando gli individualismi così fortemente radicati.

Spero che prima o poi si realizzi la “cittadella”. Però per me sarà come per Mosè: la potrò solo sognare perché il mio tempo è quasi scaduto e non potrò metter piede nella Terra promessa!

Un proposito per il mio diario

Nota della redazione: come tutti, questo appunto di don Armando è stato scritto diverso tempo fa su un foglio di carta, prima della pubblicazione del “Diario 2009” che è in effetti già disponibile.

La mia “scoperta” di parlare alla gente mediante “il diario” è piuttosto datata. Sono più di trent’anni che ho compreso che mi è più congeniale trasmettere intuizioni, messaggi o critiche mediante lo strumento agile, non impegnativo del diario, piuttosto che mediante un “editoriale” o un “saggio” benché breve e senza pretese.

Constatando, in questi ultimi mesi, che il mio riflettere “ad alta voce” diventa sempre più prolisso, sono entrato in crisi.

Il mio tipografo, che sta curando la stampa del “Diario di un vecchio prete” del 2009, mi ha avvertito, preoccupato, che alle 300 pagine del diario 2008, si sono aggiunte, nell’edizione del 2009, altre trenta, quaranta pagine. Il signor Novello, che con pazienza certosina e perizia infinita sta stampando l’ultimo volume, non era preoccupato di certo per il fatto che le mie osservazioni sulla vita fossero diventate sempre più prolisse, ma solamente perché i mezzi tecnici ultra-artigianali della tipografia di cui disponiamo, faticano a sopportare un tale numero di pagine.

Io però mi sono messo in posizione di allerta e di autocritica per questo sforamento. Sono andato a rivedere il “diario” di trent’anni fa ed ho constatato che i “giorni” mai superavano le 10-15 righe; però c’era uno stile frizzante ed arguto, una concisione tale per cui ogni volta il messaggio era racchiuso come in un piccolo brillante che destava perlomeno curiosità.

Ho fatto perciò un proposito immediato e risoluto: voglio stringere per lasciare posto agli altri! E’ bene che i vecchi parlino meno, e sempre lo facciano con ponderatezza e sapienza. Non ritengo giusto non “dire la mia”, ognuno deve mettere la sua tessera, anche se è povera e grigia, nel mosaico della vita, ma solamente la tessera, quella che lui ha scoperto nel cuore della sua coscienza!