“Signore, ricordati quanto d’aiuto sono stati a questo tuo povero prete!”

Oggi non ho più il coraggio di concedermi il piacere di leggere un romanzo o di dedicare qualche ora all’ascolto della musica sinfonica, che mi piace da morire. Uno come me, che sta vivendo da un pezzo nei tempi supplementari, ha una tale urgenza e frenesia di far gol, per vincere la partita della vita, che non gli pare di potersi più permettere divagazioni ed impegni che non siano strettamente necessari.

Qualcuno mi dice che sbaglio a pensarla così, talaltro mi cita san Paolo che afferma che qualsiasi cosa è ben fatta se è fatta per il Signore. Io però, pur accettando con la ragione questi discorsi, a livello esistenziale non riesco più a sottrarre neppure un minuto a quello che credo sia il mio dovere. Detto questo però, ringrazio infinitamente il Signore d’aver letto molto; forse un po’ disordinatamente, perché non ho incontrato educatori che mi hanno guidato, però quello che ho letto mi ritorna come una dolce nostalgia del passato e profuma anche il mio presente. Così mi sento spesso costretto a ringraziare autori che non avranno mai la soddisfazione di sapere che molti dei loro pensieri son fioriti, hanno talvolta allietato e talaltra temprato lettori sconosciuti di popoli diversi.

Se dovessi, come sarebbe doveroso, ringraziare pubblicamente gli autori che mi hanno formato come uomo e come prete, dovrei scrivere una lunghissima lista. Non posso però non citare Cronin, con i suoi romanzi: “Anni verdi”, “La cittadella” o “Le stelle stanno a guardare” o “Le chiavi del regno”. Devo a lui se non sono diventato integralista e bigotto. O trascurare Bernanos, col suo “Curato di campagna”, per lo stimolo ad interrogare sempre la coscienza. O Tolstoi, Dostoewskij e la letteratura russa, che mi hanno aiutato a incarnare la mia vita nella storia e nel cuore dell’uomo. Quanto contò per me “Guerra e pace” o “Delitto e castigo”!

Come potrei non ringraziare Hemingway per “Per chi suona la campana?”, per “L’uomo e il mare” o per “Addio alle armi”. Da lui ho compreso il cuore dell’uomo, i suoi drammi e la poesia espressa con una prosa limpida ed essenziale e la sua condanna inappellabile contro l’assurdità e la meschinità della guerra.

Neanche vorrei dimenticare Bruce Marshall, per l’ironia nei riguardi di una religiosità fittizia, fragile ed incartapecorita. Quanto mi sono cari “Ad ogni uomo un soldo”, “Il miracolo di Padre Malachia”!

Ogni tanto salgono a galla della mia memoria – ora tutta buchi – pensieri, trame, messaggi. Non mi basta dir loro «Grazie», sento il bisogno di dire al mio buon Dio: «Signore, ricordati quanto d’aiuto sono stati a questo tuo povero prete!»

Ecco cosa produce il meraviglioso mondo dello scoutismo!

Per moltissimi anni, nella mia vita di prete, ho fatto l’assistente degli scout. Sia a San Lorenzo, che poi a Carpenedo ho avuto centinaia di ragazzi nei vari settori di questa associazione.

A me lo scoutismo ha dato molto, sia a livello teorico – perché Baden Powell, il fondatore degli scout, ebbe delle lucide intuizioni, fu un grande educatore e, da pedagogo intelligente, impostò un metodo che a distanza di oltre un secolo si dimostra ancora valido in pratica, vivendo con gli scout ho imparato la parsimonia, l’autosufficienza, l’ordine, il rispetto della natura.

Leggevo un paio di settimane fa, su “Gente veneta”, un’intervista del capo scout d’Italia, che attualmente è un veneziano della Giudecca, Alberto Fantuzzo, in cui questo vecchio Akela (il capo dei lupetti) afferma che in Italia il movimento scout conta più di centosettantacinquemila aderenti, e che l’obiettivo attuale dell’associazione è quello di diventare il “manutengolo dei paracarri”, cioè dei veri valori, quali il coraggio, la virtù, la sobrietà, la sincerità, ecc. ecc.

Ora, alla mia età, non ho più tempo, né forse voglia, ma mi piacerebbe, e riterrei utile, raccontare la mia vita con gli scout: è stata non solamente un bel gioco, una bella avventura, ma un’impresa veramente affascinante! Leggendo l’intervista del capo scout d’Italia, m’è venuto in mente un opuscolo dal titolo “Stella in alto mare”, in cui un giovane scout francese, che faceva il giornalista e che è morto al fronte nell’ultima guerra, è stato capace di trasmettere in maniera piena di fascino, l’aspetto più bello e più profondo dello spirito di questo movimento.

Ricordo alcuni passaggi che m’hanno fatto molto bene, che ho citato mille volte e che mi piace riportare, seppur succintamente.

  • La Rigaudie passa per strada e vede un cartellone con la figura di una bellissima e famosa attrice del tempo ed è colpito dal suo fascino. Entra in una chiesa e prega per lei, perché pensa che, anche nella vita di questa donna, ci saranno stati drammi e dolori, e poi ringrazia il Signore d’aver mandato al mondo donne così belle!
  • Un giorno si tuffa da uno sperone di roccia sopra un mare limpido ed azzurro. Appena staccati i piedi dalla roccia, teme d’aver preso male le misure ed ha la sensazione che dopo qualche istante si sarebbe sfracellato sul costone. In quell’attimo di paura e d’angoscia riesce a pensare: “Fra un attimo, Signore, sarò fra le tue braccia di Padre!”
  • E’ invitato ad un incontro di danza e annota nel suo carnè: “Quanto è deliziosa, Signore, l’armonia del movimento del corpo, della dolcezza della donna, della musica. Ti ringrazio, Signore, per avermi fatto provare esperienze così belle!
  • Partecipò al raid Parigi-Pechino. Durante l’attraversamento di un fiume si rovescia la macchina, lui rimane impigliato sotto, per un istante gli sembra di aver fallito tutto, poi s’abbandona al Padre e pensa: “Sia fatta, o Signore, la tua volontà. Io sono certo che comunque tu mi vuoi bene!”
  • Un’altra annotazione nel diario: “Quando, o Signore, sarà giunta la mia ora, mi piacerebbe offrirti, nel cavo delle mani, la mia vita di uomo, come la preghiera più bella, ma andrà ugualmente bene se le porte sull’eterno si spalancheranno d’improvviso ed io mi troverò tra le tue braccia.”

Lo scoutismo non si riduce ad accompagnare la vecchietta oltre le strisce bianche del passaggio pedonale, ma anche sa produrre uomini di questo valore!

Il chiodo

Ci sono certe affermazioni religiose che il prete fa durante le sue catechesi o le sue prediche, che la gente ascolta senza batter ciglio e senza ribattere alcunché. Però ho l’impressione che spesso parole, idee o messaggi del genere passino veloci sopra i capelli dei devoti ascoltatori senza lasciar traccia alcuna.

Dire che Dio è il punto fermo della nostra vita, che noi viviamo solamente perché il Signore ci vuol mantenere nell’essere, che la fede è essenziale per vivere, è un discorso abbastanza scontato al quale nessuno si ribella, ma del cui contenuto c’è un assenso piuttosto formale. Sarebbe più faticoso obiettare, piuttosto che accettare supinamente, una “verità” che pare aver poco a che fare con i problemi reali della vita, quali la salute, lo stipendio, la carriera o l’amore. Qualche tempo fa, nella mia meditazione, m’ero talmente convinto dell’importanza di questa verità, che m’era parso di capitale importanza passare questo concetto ai membri della mia comunità che, ogni domenica, accorrono numerosi, partecipano attenti e ai quali voglio moltissimo bene.

La mia comunità è veramente la mia famiglia che io tento di aiutare ad imparare a vivere, ma dalla quale ricevo, ogni domenica, un aiuto veramente importante, perché tacitamente mi aiuta a comprendere che vale la pena continuare a fare il difficile mestiere del prete.

Ricorsi perciò al racconto di un “fatto”. Mi ricordai che molti anni fa avevamo chiesto a Cesare Maestri, la famosissima guida alpina, di parlarci delle sue ascensioni e delle sue avventure in montagna.

Della sua conversazione ricordai un episodio. Maestri un giorno era impegnato su una parete di sesto grado – sopra di lui la cima, sotto un baratro di quattrocento metri. Sennonché, come avviene spesso in montagna, il cielo improvvisamente si oscurò e scoppiò un temporalone con lampi, tuoni e una pioggia sferzante. Era verso sera e perciò, allo scalatore, non rimase altro che piantare un chiodo alla roccia, appendervi un’amaca e passare la notte buia appeso a quel chiodo.

Maestri è un ottimo parlatore, perciò ci trasmise la sensazione esatta della sua angoscia e della preoccupazione per la tenuta del chiodo. La vita dipendeva da come il chiodo s’era conficcato nella roccia.

Conclusi guardando negli occhi l’assemblea dei fedeli: «Ci sono dei momenti nella vita che nulla può reggere, se non la fede nel Signore. Soltanto lui può offrirci “un chiodo” che ci permetta, in certe circostanze, di non sfracellarci nel baratro. Solamente quel chiodo piantato nella roccia, e non altro, ci può salvare.

L’uomo è in viaggio verso l’eternità e dovrebbe vivere di conseguenza

Alcuni anni fa ebbi modo di incontrare occasionalmente un signore, ora commerciante affermato, che in tempi ormai lontani aveva frequentato un corso per fidanzati tenuto da me. Questo signore non era per nulla praticante; siccome io avevo modo, per via del suo lavoro, di frequentarlo abbastanza spesso, ed avevo stabilito con lui un rapporto di una certa confidenza, un giorno lui mi confidò che io l’avevo “preparato” al matrimonio. Io allora, scherzosamente, gli feci osservare che evidentemente non ero stato un buon insegnante se lui s’era dimenticato di tutto il mio insegnamento.

Allora egli ribatté, sorridendo, che ricordava perfino ciò che avevo detto una trentina di anni prima, durante quel corso prematrimoniale. Mi ricordò, infatti, a riprova del suo apprendimento, un fatterello che avevo raccontato in quella occasione. Molto probabilmente, di tutto il mio argomentare, ricordava solamente quell’esempio che avevo raccontato. Da allora compresi, ancora di più, il detto latino “Le parole volano, mentre i fatti rimangono” e così quando mi capita di poter addurre un fatterello, lo faccio molto volentieri.

Il sermone di qualche domenica fa verteva sulla parabola in cui Gesù insegna che avere le ricchezze, non fa felice l’uomo, anzi appesantisce il nostro andare. Raccontai di un pellegrino che fece visita ad un eremita del deserto, e vedendo questi l’estrema povertà in cui viveva – una tavola, una branda ed un testo sacro – gli chiese come facesse a vivere così poveramente. Al che l’eremita gli fece osservare: «E come mai tu hai solamente la bisaccia?» «Perché sono in viaggio!», rispose l’altro. L’eremita allora concluse: «Anch’io sono in viaggio, verso l’eternità!»

Dal silenzio con cui i fedeli seguirono il racconto, ho avuto la sensazione d’aver fatto centro e che, perlomeno per il momento, i miei fratelli di fede si fossero convinti che si può essere contenti anche senza far vacanze, avere la Ferrari in garage o un conto consistente in banca! Speriamo quindi che questo convincimento possa durare.

Il meticciato va bene ma il rispetto non può essere a senso unico

Spero di aver capito bene il discorso sul meticciato che il nostro Patriarca ha tenuto prima, nella “lectio magistralis” per il Redentore di qualche anno fa, e poi in molte altre occasioni. Mi pare di aver compreso che non dobbiamo temere il fatto di una possibile contaminazione culturale, civile e religiosa che può derivare dalla presenza sempre più massiccia di extracomunitari che giungono nel nostro Paese, perchè l’incontro tra culture, tradizioni e religioni più diverse non può che arricchire noi e loro. Credo che questa affermazione nasca dal fatto che il meticciato costringe sempre più i cittadini di etnie diverse a verificare la validità della propria concezione della vita e le posizioni che ognuno ha ereditato nel proprio Paese nei riguardi dei problemi più importanti dell’esistenza.

L’affermazione del Patriarca pare valida e condivisibile, ma dall’esperienza che vado facendo ogni giorno nei magazzini del “don Vecchi”, ove convergono ogni giorno centinaia di “clienti”, mi pare che si debbano piantare ben fissi alcuni paletti. Il primo di questi paletti è che non si discuta neppure che chi viene in Italia deva accettare le sue leggi, rispettare la religione e le tradizioni locali. Il secondo: che i nuovi cittadini si debbano sforzare di integrarsi mediante un dialogo a tutto campo, dalla lingua ai comportamenti e ai rapporti, e prima di accampare diritti debbano imparare a mettere in pratica i doveri. Al “don Vecchi” ogni giorno confluisce una moltitudine di persone per ricevere aiuto, ma non mi capita quasi mai di ricevere un saluto, di sentire un grazie, di offrire una collaborazione, specie da appartenenti a Paesi di cultura e di religione musulmana. Penso proprio che la cortesia e la riconoscenza siano proibite dal Corano e, semmai lo fosse, si deve correggere il Corano, non la natura umana e il vivere civile.

Comprendo fino in fondo che questi processi sono quanto mai lunghi e complessi, ma credo che comunque noi italiani dobbiamo avere le idee chiare e non permettere in maniera assoluta che questa gente pretenda di islamizzare l’Italia, come qualche Imâm pare sogni di fare. Il meticciato va bene, ma il rispetto non deve avvenire a senso unico, come purtroppo avviene nei Paesi di cultura e regime islamico.

Talvolta i padri abbandonano i figli nelle braccia di pifferai magici senza scrupoli

Qualche domenica fa ho ascoltato alla televisione l’anticipo della notizia del dramma che ha portato alla morte di una trentina di giovani e il ferimento di altri tre-quattrocento. Un milione e mezzo di giovani si sono accodati a branchi, mezzo nudi, esaltati dal suono assordante, dalla droga che correva a fiumi e da pulsioni animalesche, per ascoltare, in una città tedesca, un mega-concerto di cantanti della cui arte non rimarrà traccia alcuna nella storia della musica, perché sono solo dei fracassoni, degli imbonitori e dei saltinbanchi che si muovono esagitati come marionette mosse da fili tenuti in mano da individui furbastri senza scrupoli, così da essere disposti ad arricchirsi con la perversione di una generazione stordita e senza valore alcuno. Mentre ascoltavo con angoscia, mista a tristezza e disgusto, i servizi che si susseguivano ininterrotti sul tragico episodio, mi tornavano alla mente due immagini altrettanto desolanti: quella del pifferaio magico seguito da una folla di persone ingenue e disarmate, senza personalità e senza senno, ed un documentario in cui si presentava lo strano fenomeno di una popolazione di ratti che ad un certo momento, senza spiegazioni logiche, comincia a correre verso il mare, calpestandosi a vicenda in questa folle corsa, fino ad andare ad affogarsi tra i flutti del mare. In verità, io che sono nato nel primo quarto del novecento, ho osservato, che a tempi imprecisati, popoli interi che, per motivi sempre illogici ed assurdi, prendono le armi e si massacrano a centinaia di milioni. Il dramma di questi giorni mi lascia sbigottito e con una infinita tristezza, ma ancora una volta mi convince che quando un giovane dice a suo padre: «Dammi la mia parte perché voglio vivere la mia vita in libertà», finisce per sperperare ogni ricchezza e a ridursi a desiderare di mangiare il mangime dei suini.

I nostri giovani sono certamente dei dissennati, ma noi, loro padri, lo siamo forse più ancora, per non aver detto più spesso di no e per aver passato cattivi esempi piuttosto che valori. Al dramma si aggiunge poi anche la beffa del necrologio per cui, come per un altro sortilegio, le vittime “suicide” di queste assurdità diventano “solari” e stupende.

Amarezze

Ultimamente è morto don Picchi, uno dei primi sacerdoti che ha tentato il recupero dei tossicodipendenti, mediante le cosidette “comunità terapeutiche”, comunità che sembrano l’unico strumento valido per “salvare” una parte, seppur infinitesimale, delle centinaia di migliaia di giovani, giovanissimi ed adulti dediti alla droga.

Altro sacerdote combattente su questo fronte arduo e pericoloso è don Antonio Mazzi. Infine, tra i più noti, c’è don Pierino Gelmini, che attualmente si trova nel pieno della bufera. Alcuni dei suoi ragazzi hanno accusato di molestie sessuali questo prete ultraottantenne, trovando dei magistrati che “amanti della giustizia”, hanno aperto un procedimento penale che prossimamente vedrà questo vecchio prete sul banco degli accusati. A questo mondo siamo tutti poveri peccatori, quindi non mi meraviglierei se anche questo povero prete avesse mancato, non sarebbe né il primo né l’ultimo, perché, a cominciare da Giuda Iscariota, che nella gerarchia ecclesiastica credo dovrebbe essere annoverato tra i cardinali, fino ad oggi la Chiesa deve mantenersi umile per la schiera infinita dei suoi membri che hanno deturpato la veste candida di Cristo. Detto questo, però, da quel po’ di esperienza che ho del mondo della droga, ho capito che la menzogna e il sotterfugio sono uno degli aspetti più comuni e più frequenti da parte dei contagiati da questa “malattia”. Perciò sono propenso a pensare che dobbiamo inchinarci con rispetto davanti a don Gelmini per quanto ha fatto e per il gesto sublime di chiedere d’essere ridotto allo stato laicale, per non godere di alcun privilegio di fronte alla legge e di poter difendersi come l’ultimo dei cittadini di questo povero Paese.

Ripeto che, anche nella fase più fragile della vita, rappresentata dalla vecchiaia, questo prete avrà un’aggiunta nel peso della croce e tanta amarezza. Io ho avuto la fortuna e la grazia di non aver avuto guai del genere, però quanta amarezza anch’io per insinuazioni, mancanza di riconoscenza e di collaborazione da parte di gente che ha beneficiato a piene mani delle mie fatiche, dei rischi affrontati e delle responsabilità pesanti che mi sono assunte per aiutarli. Farà il Signore!

Prediche coinvolgenti, vere, forti!

Quando la domenica mattina esco verso le 7,20 dal “don Vecchi” per iniziare il giorno del Signore nella mia piccola diocesi, composta da due parrocchiette – quella della vecchia pieve, oltre la cancellata di ferro battuto, e quella nuova, la cattedrale che sta aldilà della mura sulla quale sono fissate delle anime sante di bronzo che salgono al cielo (opera del caro amico scultore Gianni Aricò), mi capita di sentire, sempre nella radio della mia auto, la musichetta della sigla del culto della Chiesa Evangelica.

La durata di tempo che impiego a percorrere il tratto di strada dal “don Vecchi” al cimitero, mi permette di ascoltare per intero il sermone del mio “concorrente”, il pastore valdese. Di solito sono sermoni puliti, ben curati, pieni di riferimenti biblici, condivisibili in tutto, ma tutto sommato appartengono al cliché delle prediche dei nostri preti buoni, che preparano con scrupolo la parola del Signore. Per me sono come la “dolce pioggerella di marzo” del poeta della nostra infanzia Angelo Silvio Novaro.

Io sento però il bisogno di quel qualcosa di più robusto, ciò che scosse e infervorò gli apostoli racchiusi, paurosi e rassegnati, nel Cenacolo. Ho bisogno anch’io del vento gagliardo della Pentecoste, del globo di fuoco che scende dal tetto. Per due o tre anni ho ascoltato ogni domenica le prediche di quel prete alla don Camillo, dagli occhi vivi e dalla voce tonante e persuasiva, propria di Mons. Aldo Da Villa, il cappellano della battaglia dei nostri soldati ad El Alamein. Egli, ogni volta che scendeva dal pulpito, grondava di sudore, ma ogni volta pareva che prendesse per il bavero ad uno ad uno i fedeli che gremivano la chiesa e che non fiatavano di fronte alle sue argomentazioni oneste e franche. Ogni volta pareva che mettesse i fedeli con le spalle al muro dicendo a ciascuno: «questa è la salvezza!»

Io ormai ho vissuto un tempo così lungo da sentire gli esperti parlare di prediche bibliche, prediche catechistiche, prediche liturgiche, però rimango del parere che la predica deve essere un “Kerrima”, ossia un annuncio, sicuro senza sbavature, senza perplessità o incertezze di sorta.

Qualche domenica fa toccava parlare sulla madre di tutte le preghiere, il Padre Nostro. Io neppure mi inoltrai nel sentiero invitante del susseguirsi di questa saggia e dolce preghiera. Mi fermai al “Padre”, la cara e struggente parola con cui Cristo ci invita a rivolgerci a Dio, e tentai di incorniciare il padre del prodigo. Confessai pubblicamente che da quando “scoprii” questo volto e questo cuore, sento il rimorso d’aver pensato e parlato di Dio secondo certi schemi ecclesiastici, perché quello del prodigo è il solo vero Dio, quello che capisce, perdona, accetta i nostri limiti e le nostre rivolte assurde.

M’è parso che, finito di parlare, la gente sentisse quasi l’abbraccio forte e tenero di Dio. Come vorrei che fosse così!

Al Don Vecchi Marghera c’è un dipendente modello come pochi se ne trovano!

Al “don Vecchi” preferiamo non fare assunzioni perché ogni stipendio va a finire nell'”affitto” degli anziani residenti, molti dei quali “godono” di condizioni economiche modestissime. C’è almeno una decina di persone che non giungono neanche ai cinquecento euro di pensione al mese, ed un’altra quarantina e più che arriva alla fatidica somma di 516 euro, la pensione minima erogata nel nostro Paese.

Puntiamo sul volontariato, ossia dobbiamo puntare sul volontariato, ma qualche volta questo non arriva, o non arriva quello di cui abbiamo bisogno. Talvolta però, pur con fatica e preoccupazione, siamo costretti ad assumere qualcuno.

A Marghera, almeno ogni dieci giorni, qualcuno doveva tagliare l’erba nel parco. Per fortuna di tutti, finora avevano provveduto, da volontari, alcuni residenti, ma è noto che noi accogliamo persone già avanti con gli anni. Ogni taglio costituisce un problema per la vecchia tosaerba e per i vecchi operatori, anche per lo smaltimento di una trentina di sacchi di erba tagliata. Lino e Stefano, i gestori del Centro, dopo interminabili consultazioni col ragionier Candiani e don Armando, e parecchi accertamenti sulla capacità, affidabilità e rendimento del candidato alla assunzione con la qualifica di giardiniere generico addetto al taglio dell’erba, hanno fatto una proposta e la Fondazione l’ha accettata.

L’altro ieri sono andato a Marghera per conoscere il nuovo assunto. In verità l’aspetto non è proprio incoraggiante: m’è sembrato un nanerottolo poco più grande di un coniglio, ma pare che sia un lavoratore di quelli che non se ne trovano più. Orario di lavoro pattuito: otto ore al giorno dalle 8 alle 12 e dalle 16 alle 20, ferie solamente d’inverno e, quando piove, come i muratori, paga mensile euro 1,8. Quello però che m’ha sbalordito è stata la buona volontà: mai un minuto per riposare; meglio ancora la produttività: il prato m’è sembrato un tappeto con una rasatura a pennello!

Ho concluso che i futuri dipendenti li assumo tutti dalla fabbrica che produce questo robottino. Senonché suor Teresa, che ha udito questa mia scelta, mi ha informato che anche Alberto Sordi, il compianto e simpatico attore romano, aveva scelto una robottina del genere, ma presto gli si era innamorata, ma soprattutto era tanto gelosa che quando si accorgeva dell’insistenza di qualche concorrente, pestava i piedi, sbatteva le porte e rompeva piatti. Spero proprio che non mi accada una cosa del genere e che, una volta ancora, non rimanga deluso dai dipendenti!

“do, ut des” (ti do qualcosa, ma anche tu devi ricambiare), una massima poco seguita

Il discorso di Pomigliano e della decentrazione in Serbia di uno stabilimento della FIAT, mi sta coinvolgendo quanto mai, come uomo, come cittadino e come cristiano.

Mio padre fu un piccolo artigiano e mio fratello, che ha ereditato la sua bottega di falegname, hanno affrontato la vita lavorando da mattina a sera, non conoscendo giorni di riposo, né ferie, non percependo tredicesime e, meno che mai, quattordicesime, non potendosi concedere il lusso di ammalarsi, coinvolgendo la moglie e i figli nell’andamento della bottega, preoccupati di stare sul mercato, misurandosi ogni giorno ed in ogni lavoro con la concorrenza.

Io, nonostante mio padre sognasse la collaborazione del primogenito, ho preso un’altra strada, ma la mia scelta non mi ha esonerato dalle problematiche del lavoro. Ho capito ben presto che la solidarietà, o la carità cristiana, se non è calata dalla stratosfera alla realtà dei bisogni concreti degli uomini, si riduce ad una menzogna.

Padre Ugo Molinari, parroco di Altobello, soleva domandare in un modo sornione, ma saggio: «Cosa fa acquasanta più terrasanta?» Aspettava un attimo e poi concludeva da solo: «Fa fango!» Le prediche sulla carità, se non diventano opere e vita, sono spudorate menzogne, non menzogne sante!

Dico questo perché so, per diretta esperienza, la fatica , i sonni perduti, i rischi che si devono affrontare per creare anche il più modesto posto di lavoro. Potete immaginare la delusione, lo sdegno, l’amarezza, quando avverti che colui a cui il lavoro viene offerto non compie il suo dovere, approfitta di ogni norma favorevole, non si lascia coinvolgere nell’impresa, prende, dando in contraccambio il minimo, è sempre preoccupato di essere sufficientemente retribuito, e talvolta arriva perfino a remare contro.

Io non sono certamente un gran ammiratore di Mazzini ma, se non avesse altri meriti che quello di aver parlato sui “doveri del cittadino”, credo che sarebbero giustificate le titolazioni di strade e di piazze e l’occupare qualche pagina dei libri di storia delle elementari.

I romani avevano coniato una massima, pur cruda ma realistica “do, ut des”, ti do qualcosa, ma anche tu devi ricambiare. In questi ultimi tempi mi sono sentito spesso romano purosangue.

Sto con i poveri ma condivido la posizione di Marchionne

Tutto sommato, nonostante provenga da una famiglia di modestissime condizioni economiche, e nonostante abbia scelto, con lucidità e decisione, la parte dei poveri, sono per Marchionne.

Soltanto gli stupidi e i demagoghi possono far finta di non capire che in una economia globalizzata vanno i prodotti che vengono a costar meno e i prodotti costano certamente meno dove non si sciopera per ogni motivo per quanto futile, ove si lavora e non si fa finta di lavorare, ove si vive una vita sobria e perciò non si coltivano dei bisogni fasulli.

Gli operai stessi, e chi ha meno mezzi economici, comperano i prodotti che costano meno, anche se questi vengono dalla Cina, dall’India o da qualsiasi parte del mondo. Sarebbe strano se si potesse supporre che i consumatori italiani, e soprattutto gli altri popoli del mondo, e più ancora i Paesi più poveri dell’Africa, dell’Asia e di qualsiasi altro continente, preferissero ciò che noi mettiamo sul mercato ad un costo doppio, triplo ed anche quadruplo, solamente perché gli italiani sono più belli, vogliono lavorare meno, avere più ferie e godere di più privilegi.

So che certuni mi diranno che sono di destra, che ho simpatia per Berlusconi e che sono un reazionario; a costoro rispondo che solamente pretendo di ragionare con intelligenza ed onestà. Alla gente di fuori ripeto che non si possono né si debbono chiamare ragionamenti le farneticazioni e le faziosità di chi segue dottrine capaci solamente di produrre miseria per tutti, se si eccettua qualcuno della nomenclatura o dei quadri di partito.

Per quelli invece che si ritengono di casa nostra, ripeto ancor più duramente che san Paolo afferma, senza mezzi termini: “chi non lavora non mangi” e la Bibbia, altrettanto chiaramente: “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”, per nulla preoccupato delle affermazioni della Fiom o di Franceschini.

Le chiacchiere dei ricchi (e i soldi dei poveri)

Oggi m’è arrivata la seconda risposta alla richiesta che ho fatto agli enti pubblici per avere un contributo per la costruzione di 64 alloggi per gli anziani poveri della nostra città.

La risposta è quella della Banca Antonveneta che, fra l’altro, noi del “don Vecchi” usiamo per depositare gli affitti dei 300 residenti e per le operazioni bancarie che la nostra Fondazione deve fare. L’Antonveneta ha risposto con un NO, espresso con parole cortesi, ma che rimangono nitidamente e praticamente ancora un NO. La domanda l’avevo pensata con estrema attenzione, misurando ogni parola ed ogni virgola, però, nonostante tutto il mio sforzo, essa ha ottenuto soltanto un bel NO rotondo e preciso!

Un mio recente amico, che ha una preparazione universitaria specifica in questo settore e che ha pure passato la vita a fare questo mestiere, mi ha detto che probabilmente ho impostato male la mia richiesta. A suffragio della sua tesi m’ha raccontato una storiella che aveva appreso a sua volta da una lezione di un suo docente universitario. Eccola!

Due frati si incontrarono per la preghiera. Il primo recitava il breviario fumando tranquillamente, mentre l’altro si rodeva l’animo e friggeva dal desiderio, non potendo fumare perché l’abate, alla sua richiesta, gli aveva risposto di no; perciò disse al confratello: «Come mai l’abate ti ha dato il permesso di fumare durante la preghiera e a me l’ha proibito?» L’altro, pronto, rispose: «Perché hai mal impostato la domanda; mentre tu hai chiesto il permesso di fumare durante la preghiera, io ho chiesto se posso pregare mentre fumo e l’abate perciò mi ha detto di si».

Dopo questa argomentazione quanto mai logica, ho deciso di chiedere al mio amico di interessarsi lui della richiesta di aiuti a livello economico presso gli enti pubblici, mentre io mi riservo il compito di chiedere, come meglio so, alla povera gente, di aiutarmi a pagare i 64 alloggi di Campalto per gli anziani poveri della città.

Penso di andare sul sicuro ricordandomi di un’altra storiella. Il parroco della grandissima chiesa di Montebelluna si dice che abbia apposto una lapide sul suo tempio con la scritta “Questa chiesa è stata costruita con i soldi dei poveri e con le chiacchiere dei ricchi”. Finora è così anche per il “don Vecchi” di Campalto!

La ricchezza degli uomini di Chiesa dovrebbe andare ai poveri, non in un forziere!

Ci sono delle notizie che mi deprimono e fanno tremare la mia fiducia nella Chiesa.

Qualche settimana fa “Famiglia Cristiana” ha fatto un bellissimo servizio sulle fontane che ci sono, a decine, nei parchi della Città del Vaticano. Io non sono Attila e perciò, già che ci sono, lasciamole, però non ne farei altre e non mi inebria proprio il fatto che Paolo ics, o Benedetto ipsilon, abbiano fatto costruire una o l’altra fontana! Credo che la reggia papale possa passare come un vecchio peccato che si spera che la misericordia di Dio abbia perdonato ma, per carità, non gloriamoci di queste “miserie umane”.

Mi spiace che una rivista cattolica che spesso fa prediche di sinistra non si sia accorta che i tempi del Papa re o del triregno sono passati e che dobbiamo sforzarci non solo di dimenticarli, ma pure di tornarci sopra con una certa disinvoltura.

Queste convinzioni me le porto nel cuore da sempre, le mie letture e le testimonianze cristiane che amo, hanno sempre preso le distanze dalla ricchezza, memori delle parole forti ed inequivocabili di Cristo: «Non si può servire Dio e contemporaneamente mammona», «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno”. E se non bastasse questo, la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone è là come una lapide a perpetua memoria.

Questi pensieri e questa malinconica tristezza si è rinnovata qualche giorno fa quando un amico estremamente credibile, mi ha confidato che un prelato, che io dovrei certamente conoscere, possiede in una banca – di cui m’ha fatto il nome e spiegato l’indirizzo – un’autentica fortuna. Io non immagino neppure il nome e non desidero saperlo! Però confesso che mi ha veramente turbato il pensiero che un prete della mia città, con tutti i poveri, con tutta la carenza di servizi, preferisca al loro benessere e alla loro riconoscenza, il gusto di andare in banca a rimestare il denaro come l’avaro di Molière.

Lo scorso anno la Chiesa universale ha presentato all’attenzione del mondo intero, e in particolare al clero cattolico, il povero Curato d’Ars, il quale bolliva una pentola di patate che doveva bastargli per una quindicina di giorni.

Ho l’impressione che neppure l’anno sacerdotale, con l’accolta finale di dieci-quindicimila pretini in piazza San Pietro sia servito a molto.

L’occidente impazzito

Io non riesco più a capire il nostro mondo. In Pakistan, in Russia e in Africa ci sono centinaia di migliaia di bambini e di creature che muoiono di fame per le inondazioni, per gli incendi, per le lotte tribali e per guerre senza fine, mentre nella vecchia Europa opulenta e “cristiana” impera il consumismo e lo sperpero più sfacciato. Ma per non andare troppo lontano, anche in Italia, dove la destra dice che siamo sul punto di superare la crisi e la sinistra afferma che ci siamo ancora dentro, ma dove comunque tutti versano lacrime di coccodrillo sulle difficoltà delle classi medie e, peggio ancora, degli operai a reddito fisso, colonne infinite di auto percorrono il Paese in lungo e in largo, le spiagge sono peggio degli alveari, per entrare in un ristorante bisogna fare la coda e nelle discoteche si balla fino alle prime luci del mattino.

Questo è solo un aspetto del malcostume e dello sperpero, però ci sono altri aspetti meno appariscenti, ma non meno sacrileghi nei riguardi della sofferenza e della fame.

Mia cognata, qualche giorno fa, mi raccontava di una sua vicina di casa che conduce il suo cane a passeggio accoccolato nel passeggino per bambini e, senza arrossire di vergogna, le confidava che gli preparava le sardine ai ferri deliscate, affermando che voleva più bene al suo cagnolino che a suo figlio.

Chi di noi, quando fa brutta stagione non ha visto cani col cappottino addosso e chi di noi non s’è infastidito e perfino schifato per la pubblicità dei vari mangimi per cani e gatti, pubblicità in cui ci si sofferma sulla qualità e la cottura della carne? E chi di noi non ha visto alla televisione i concorsi di bellezza per cani e gatti, con le relative acconciature, con i profumi e i tagli eccentrici del pelo?

Ho letto in qualche parte che in Italia ci sono almeno cinque o sei milioni di cani. Perché Tremonti, senza lambiccarsi il cervello, non mette 50-100 euro di tassa a secondo della taglia e del pelo!?

E nel caso scandaloso delle sardine e del passeggino, nella sospirata riforma della giustizia, non si studia qualche giorno di galera per questi misfatti contro l’umanità?

Addio cara amica (in ricordo di Cristina)

Molti anni fa l’aereo che trasportava il “Torino”, la squadra di calcio che a quel tempo andava per la maggiore, andò a sfracellarsi contro il colle su cui sorge la basilica di Superga. In quell’incidente perì l’intera squadra, compresi i dirigenti e gli accompagnatori.

Ricordo che in quell’occasione il solito giornalista della televisione chiese ad un signore che guardava i relitti fumanti, che cosa provasse di fronte a quel dramma. Lo spettatore diede una risposta che ricorderò per sempre. Disse: «Quando succedono cose del genere si dice normalmente, magari provando dispiacere “è’ una disgrazia, una grande disgrazia”, però se in quell’incidente c’è dentro un amico carissimo, è tutt’altra cosa!»

Io sto provando in questi giorni la “tutt’altra cosa”. Vivo la maggior parte della giornata in cimitero, mi occupo principalmente di esequie, di funerali, di benedizioni alle salme e alle ceneri, partecipo sempre in maniera sentita al lutto, perché sono convinto da sempre di ciò che disse Raoul Follereau: «Considero fratelli e sorelle tutti gli uomini che vivono su questa terra». Però il lutto per la morte di Cristina, la dolce e cara creatura che per molti anni perse i suoi occhi per leggere questi geroglifici, mediante cui esprimo i miei pensieri e prendo posizione nei riguardi della vita, e rubò tempo, prima al suo lavoro e poi alla sua famiglia, per inserire il mio diario nel computer, è “tutt’altra cosa!”

Ero solito incontrarla col suo sorriso contenuto e discreto, con la sua figura sempre signorile e ben curata, partecipare all’Eucarestia che celebro ogni sabato nell’interrato del “don Vecchi”, mentre ricevevo il malloppo di pagine e pagine, come non le fosse pesato starsene ore ed ore al computer; mai una lagnanza, mai farmi pesare la sua volontaria fatica.

Ho trepidato per lei per la “bestia” oscura che conosco fin troppo bene, ho sperato con lei, i suoi cari e i suoi amici, ho partecipato e condiviso, m’ero illuso che ambedue ce l’avremmo fatta. Invece no! Il male ha avuto il sopravvento e purtroppo l’ho vista perdere battaglia su battaglia, sempre più frequentemente, e quando non avevo notizie dirette, le leggevo, senza avere il coraggio di parlare, negli occhi sempre più lucidi e nella voce sempre più roca del carissimo Giulio.

Cristina venne a salutarmi nella chiesa del cimitero ove, dopo poco tempo, avremmo preso commiato da lei consegnando la sua anima, finalmente tornata luminosa, libera e viva, prima di partire per le “sue vacanze in Alto Adige”. Volle riempirsi gli occhi del verde dei prati e dei boschi, i polmoni dell’aria tersa e della visione delle montagne possenti, prima di lasciare la nostra terra per il Cielo.

Cristina ha portato con sé anche un po’ del mio cuore in Paradiso, ma di certo s’è portato tutto quello di Giulio e dei figli. Addio, amica cara!