Torri di Babele dei nostri tempi

Circa un mese fa è saltata la capocchia di un vulcano della lontana Islanda, il fumo del quale ha messo a terra migliaia di modernissime macchine che solcano il cielo e milioni di passeggeri che sono soliti spostarsi da un paese all’altro mediante l’aereo.

Non c’è stato niente da fare: motori, piloti, organizzazioni internazionali sono rimasti a terra per una cosa così effimera qual’è la polvere del fumo. Pochi giorni dopo una piattaforma, che estrae il petrolio dal fondo del mare, si è rovesciata per un’onda anomala o per un banale incidente tecnico e tutto questo ha messo in ginocchio la potenza più grande del mondo, sporcando in maniera quasi irrimediabile l’oceano, uccidendo pesci e uccelli ed imbrattando le coste più belle del mondo.

Non si tratta della sfida di una potenza atomica, ma di un semplice ghiribizzo della natura, che s’è stufata delle briglie e del morso che l’uomo le ha posto in bocca, obbedendo invece al comando di un generale con molte più stellette di quelle di quei generali che tutti conosciamo.

In questi giorni mi sono ricordato della storiella che Giovannino Guareschi premette al suo “Mondo piccolo”. L’uomo con la sua arroganza e protervia s’è messo in mente di andare ad occupare il trono di Dio, costruendo ancora una volta una torre di Babele. Tanto strepita che il buon Dio s’è stufato ed ha mosso la falangina del dito mignolo della mano sinistra, rovesciando rovinosamente la torre con la quale gli uomini, ancora una volta, stavano tentando di scalzarlo dal suo trono.

In questi giorni tante volte ho pensato all’arroganza e alla supponenza di certi scienziati, di certi uomini di cultura, di certi politici e di certi sociologi, ed ho concluso che sento un infinito compatimento verso tutta questa povera gente che non riesce neppure a liberare il cielo dalla polvere o a mettere il tappo ad un pozzo di petrolio, mentre vorrebbe dar lezioni all’Onnipotente! Quanta più bella figura farebbero se se ne stessero quieti e zitti!

L’utopia

Per tanto tempo ho coltivato una falsa concezione della parola “utopia”. M’ero convinto che la sua traduzione più esatta fosse espressa dalla parola “illusione”. A ribadire questo concetto, che ora ritengo del tutto sfasato ed erroneo, aveva contribuito la lettura di Cervantes, con i suoi protagonisti: don Chisciotte e il fedele scudiero Sancio Panza.

Da parecchi anni ormai mi si sono aperti gli occhi, interpretando in maniera radicalmente diversa questo termine, tanto che l’utopia è entrata a pieno titolo e in maniera positiva non solo nel mio linguaggio, ma nella mia lettura della vita. L’utopia costituisce per me quasi un valore assoluto verso cui tendere ad ogni costo e con tutte le nostre forze, anche se convinti che non riusciremo mai a realizzare quel valore e a raggiungere in maniera completa quella meta.

L’utopia è un obiettivo nobile ed alto, da conquistare sempre più, pur coscienti di non raggiungerlo mai, perchè è impossibile che l’uomo, essere finito, possa contenere qualcosa che lo supera e che è più grande di lui; ma tutto ciò non deve esimere l’uomo dal continuare nel suo sforzo per far proprio questo valore.

Ricordo certe lezioni di monsignor Vecchi, il quale ci confondeva con certe affermazioni che ora capisco quanto fossero sagge ed intelligenti. Chi mai potrà appropriarsi completamente del concetto di verità, di giustizia, di bellezza? Forse nessuno. Però, man mano che uno procede in questa direzione, sempre più si arricchisce di questo valore, anche se rimarrà una meta inarrivabile nella sua entità sostanziale.

I sogni, gli ideali e i valori sono dei nobili fratelli minori dell’utopia; essa però rimane la regina perché tutto sommato è una manifestazione dell’Ente Supremo che ci permette di “abitare in Lui” nella misura in cui riusciamo a progredire nella sua “conquista”!

In quella predica ho evitato banalità patriottiche o religiose per sognare un futuro di pace e ricerca del bene comune!

Quando i resti mortali di Matteo Vanzan, il giovane lagunare caduto a Nassiria, colpito da una scheggia di granata, tornarono in Italia avvolti nel tricolore, ci fu grande commozione e lutto in tutto il Paese. La giovane età, l’entusiasmo per la professione scelta e l’amore di Patria instillatogli dal padre carabiniere, toccarono le corde più profonde del cuore degli italiani.

La famiglia di Matteo vive in un paesetto dell’interland, ma non so per quale motivo ha scelto di seppellirlo nel “campo pagante” proprio vicino all’ “Altare della Patria”del cimitero di Mestre. Spesso ho visto il padre e i famigliari fermarsi in preghiera vicino alla tomba del loro caro ed ogni anno, a metà maggio, prima il reggimento dei lagunari e poi la sezione locale dei reduci dell’arma, organizzano una messa al campo in suo suffragio.

Qualche anno fa è venuto per la celebrazione proprio il cappellano che condivise in terra irachena il dramma dei nostri ragazzi; in quell’occasione questo bravo prete disse parole toccanti, lontane da quella retorica patriottica che oggi suona sempre più stonata, parole che hanno ben inquadrato la testimonianza di questo giovane che credeva negli ideali di libertà e di democrazia e per essi incontrò la morte.

Quest’anno chiesero a me di celebrare la messa e commemorare il sacrifico di questo giovane. Stetti molto attento ad avere un estremo rispetto per i nostri soldati e per i valori per cui essi operano. Però credetti opportuno ribattere che oggi dobbiamo educare i nostri giovani a vivere e non a morire per la Patria e ribadire che le armi e la forza in genere sono uno strumento antiquato e fuori corso per stabilire l’ordine, la giustizia, la libertà e la democrazia. I nuovi strumenti sono oggi il dialogo, la ricerca del bene comune e il rispetto per la vita e per la cultura di ogni Paese; con essi dobbiamo perseguire questi valori condivisibili da tutti.

I militari, vecchi soldati in pensione e cittadini comuni mi ascoltarono attenti e m’è parso che abbiano condiviso fino in fondo il mio discorso, che finalmente usciva dalle solite banalità patriottiche e religiose.

Ancora sulle persone di Dio prima che della Chiesa

Molti anni fa, quando ero cappellano a San Lorenzo, portavo frequentemente la comunione ad una signora anziana di Riviera 20 settembre, che non poteva uscire di casa per una infermità; era un’ottima persona e molto religiosa. Il marito mi apriva la porta con tanta cordialità e tanta deferenza, non partecipava però alla comunione della moglie, ma sembrava non solo connivente, ma felice delle pie pratiche della moglie e delle mie visite.

Col passare del tempo e l’aumentare della familiarità, mi prese la curiosità di sapere come la pensasse a livello religioso. Feci il furbo, pur essendo stato io sempre maldestro in certe cose, ed un giorno dissi a questo signore: «Dato che vengo a portare la comunione alla signora, mi costerebbe nulla portarla anche a lei, pur sapendo che lei può uscire di casa». Dapprima mi parve un po’ imbarazzato, ma mi disse poi con tanta bonomia e tanta umanità: «Mi dispiace, don Armando, darle questa delusione, ma io, pur avendo grande rispetto per la Chiesa, venerazione per il Sommo Pontefice (a quel tempo era Papa Giovanni XXIII) e pur essendo innamorato della spiritualità francescana, penso di non essere credente!»

Quel signore era un vecchio socialista che s’era battuto ai suoi tempi per il riposo domenicale dei lavoratori, per la giornata lavorativa di dieci ore e per tante altre cause per cui i socialisti erano impegnati, mentre i clericali pensavano alle funzioni religiose.

Rimanemmo amici, io l’ammirai per la sua autenticità e per il suo umanesimo. Non gli proposi mai di fare la comunione e meno ancora tentai di “convertirlo”. Lui era già convertito e pregava già con la sua onestà intellettuale, il Paradiso se l’era già guadagnato con la sua lotta per l’uomo.

Da allora ho sempre avuto un sacro rispetto, e quasi una venerazione, per quegli uomini che sant’Agostino chiamava “persone che Dio possiede e la Chiesa non possiede”.

Orgoglioso di essere in sintonia con “i lontani”

Sono assai contento che le persone che mi stimano e mi vogliono particolarmente bene siano, a quanto pare, “i lontani”, ossia quelle persone che frequentano poco la chiesa e meno ancora le sagrestie e le canoniche. Credo che la gente avverta e distingua per istinto ciò che è autentico da ciò che è artificiale e formale.

Io non ho mai ambìto ad essere un prete speciale, un prete contestatore, rivoluzionario o da fronda, ma ho invece sempre sognato e tentato di essere un uomo ed un cristiano onesto che si confronta in maniera autentica con i problemi della vita e le proposte religiose del Cristianesimo, che non dice mai nulla di cui non sia convinto, che non accetta nulla per scontato e certo, ma che indaga, verifica e tiene solamente quello che gli pare vero e fecondo per sé e per gli altri.

Ho la sensazione che la gente apprezzi tutto ciò. E’ vero poi che non sono per nulla amante dei riti, delle cerimonie ampollose, degli incontri sofisticati in cui si discute sul “sesso degli angeli”. Ho sempre preferito a questo mondo artificioso la concretezza, il contatto con gli uomini, il servizio umile e disinteressato verso le persone che non contano e vivono delle briciole della società opulenta.

Non ho mai fatto scelte politiche di moda, né ho preso orientamenti culturali che vanno per la maggiore, invece ho sempre tentato di aiutare con concretezza chi è in difficoltà, pur sapendo di non essere capace di risolvere appieno i loro problemi, trovandomi quasi sempre in minoranza e perdente.

Credo che questi orientamenti di fondo mi abbiano sempre messo in sintonia e sulla lunghezza d’onda degli uomini veri, che quasi mai accettano di essere intruppati e mai accettano, per convenienza o per opportunità, il pensiero dei più.

Portare a Mestre “odor di Vangelo”

Dal 1956 vivo a Mestre e da quell’anno ho preso la parola infinite volte durante le eucaristie domenicali, e non solo una volta alla settimana ho parlato ad un numero veramente grande di matrimoni e di funerali, ho scritto per “Il Gazzettino”, per “Gente Veneta”, su “L’Anziano”, su “Lettera aperta”, su “Carpinetum”, su “L’Incontro”, su “Coraggio”; tantissime volte sono stato intervistato da varie televisioni, motivo per cui a Mestre sono veramente tanti i concittadini che mi conoscono e che mi salutano, soprattutto in occasione del diario settimanale.

Questa conoscenza poi non si limita ad una immagine, ma ha permesso ai mestrini di conoscere i miei pensieri, i miei progetti, le mie prese di posizione. Tutto questo mi fa tanto piacere, da un lato perché reputo veramente una fortuna ed una grazia vivere in un mondo di amici, e dall’altro lato perché ho imparato dagli scout che la persona in se stessa costituisce la migliore e la più efficace proposta ed il messaggio più convincente.

Mi auguro e spero quindi che il mio nome e la mia immagine costituisca una seppur sbiadita immagine, o un capitolo dell’Evangelo di Cristo, per i miei concittadini.

Mi sento insomma confortato e rassicurato, nonostante io sia una persona un po’ introversa, di poter compiere in qualche modo quell’opera di evangelizzazione che è lo scopo della mia vita.

San Paolo affermava con orgoglio: «Io non ho nulla da proporvi se non Gesù Cristo crocifisso». Io non ho certamente l’ambizione di esser capace di un annuncio così autorevole ed efficace qual’ è stato quello dell’apostolo delle genti. Sarei già contento se la mia persona e la mia parola portassero a Mestre “odore di Vangelo”.

Ancora primavera

Sto provando un sentimento di struggente ebbrezza nel potermi immergere in questa splendida primavera, da un lato un po’ immalinconita per la pioggia e perfino gli acquazzoni frequenti, ma resa più splendida e regale perché il clima ha favorito lo sbocciare di tutti i fiori, il verde cupo nei prati e lo splendore di ogni pianta in fiore.

Io che sono un amante della musica classica, mi sono sentito veramente coinvolto dalle più splendide melodie espresse dai colori, ora tenui ora intensi, di questa impareggiabile stagione primaverile.

Quante volte sono rimasto estasiato da tutti i colori, da tutti i toni della tavolozza. Tante volte m’è sembrato di avvertire le tenui e dolcissime note della Pastorale di una ouverture di Rossini, o ammirando i papaveri scarlatti nei campi adiacenti l’ospedale dell’Angelo, m’è parso d’essere coinvolto dall’Inno alla Gloria di Beethoven, o ammirando il prato verde cupo, tutto trapunto dalle bianche e piccole margheritine di campo, m’è parso che da esso emergessero le soavi ed incantate note della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvoràk.

Quante volte, vedendo il rapido succedersi di alberi con fiori di ogni foggia ed ogni colore, non ho sentito la danza brillante e suadente di Ciaikovski, e quante volte, vedendo prati ricchi di una sinfonia di colori diversi, ma sempre armoniosi, non ho avvertito il tintinnìo di campanelli del nostro caro Wolf Ferrari.

La natura in questi giorni esprime la più profonda e coinvolgente delle sinfonie, con note larghe e suadenti e talora con guizzi dai colori strani ed intensi, che suonano come da solisti in questa meravigliosa orchestra che canta la gloria di Dio e il suo infinito amore per noi, sue creature, facendoci incontrare in ogni angolo della nostra terra il segno della sua infinita dolcezza.

I trentacinque anni della Corale Carpinetum

Il maestro del coro di Carpendo, dottor Mario Carraro, in occasione del trentacinquesimo anno di servizio di animazione delle eucaristie domenicali nella parrocchia di Carpendo, mi ha domandato un articolo per la pubblicazione che intendono fare.

Per motivi di amicizia e di profonda riconoscenza, ho accettato di buon grado di dare il mio piccolo contributo all’evento. Mi è sembrato doveroso mettere in luce le benemerenze che questo grosso complesso corale ha meritato in tanti anni di attività e nelle occasioni più diverse della vita parrocchiale e pure cittadina, anche perché sono convinto che il Coro Carpinetum abbia riaperto la pagina del bel canto dal tempo in cui sono imperversate nelle celebrazioni religiose le chitarre – sempre amplificate – seguendo la moda delle discoteche, e dei canti estremamente ritmici, spesso privi di armonia e di quel misticismo che è una prerogativa del canto corale.

Il coro di Carpendo ha avuto anche il merito di non fossilizzarsi nella polifonia, ma di spaziare dal canto popolare a quello spiritual, dalle grandi corali di Bach a canti melodici con arrangiamenti moderni di grande pregio. La rivisitazione dell’attività di questo gruppo parrocchiale, che ha reso i suoi servizi alle più disparate iniziative parrocchiali, mi ha offerto l’opportunità di riandare col cuore e col pensiero ad una stagione quanto mai feconda di questa comunità di periferia che ha aperto, con grande spontaneità e senza complessi, il dialogo col nostro tempo in tutte le sue molteplici sfaccettature.

Ho sentito veramente il bisogno di ringraziare il Signore per aver potuto fare un’esperienza religiosa di grande intensità, spesso innovativa, sempre alla ricerca di un approccio con la cultura e la società del nostro tempo. Un po’ di merito spero di averlo avuto anch’io, ma soprattutto ho avuto la fortuna di incontrare una miriade di collaboratori che con intelligenza e coraggio hanno aperto e percorso tante strade nuove per incarnare il messaggio cristiano.

Il valore del lavoro svolto al meglio

Brodolini, una trentina di anni fa, ha fatto lo statuto dei lavoratori. Spero che abbia stilato questo documento con la seria intenzione di proteggere i lavoratori dalle soperchierie dei “padroni” (oggi sarebbe meglio parlare dei capi o dei dirigenti, perché è ben difficile scoprire chi sia il padrone) e da questa speranza nasce il mio convincimento che il Signore gli abbia dato un posto in Paradiso.

Vedendo le dimostrazioni degli operai della Grecia e soprattutto dei loro sindacati che li aizzano ad una lotta assurda e autodistruttiva, sono costretto a prendere atto che forse il Brodolini greco, come qualsiasi organizzazione sindacale, dovrebbe dedicare qualche capitolo anche al realismo sociale e ai relativi doveri. Pare che certa gente non abbia ancora preso in considerazione che il benessere è prodotto dal lavoro e non dalla fannullaggine di chi non vuol lavorare o vuole un benessere che non si sa da chi debba essere prodotto.

Io appartengo alla cosidetta classe operaia, sento di esserne parte integrante e sono intenzionato a promuoverla, aiutarla con tutte le mie forze, ma con altrettanta onestà constato che spesso, non solamente nello Stato, nel parastato, nella grande industria, ma perfino nelle piccole imprese artigiane, s’è sviluppata la tendenza ad approfittare di mille clausole della legge, suggerite o imposte nel tempo dalle organizzazioni sindacali per fare il meno possibile, ad approfittare di ogni ammennicolo di legge per non impegnarsi.

Bisogna che affermiamo più forte di sempre che lavorare deve essere un servizio, un dono ai fratelli, una espressione delle proprie capacità, un contributo al mondo nuovo che tutti sogniamo. Non compiere il proprio dovere è un tradire i diritti dei fratelli, non dare il meglio di sé è una nota stonata nel coro del Creato. Tutto questo discorso vale ancora di più per i dirigenti, gli amministratori più alti. Però, diciamocelo con franchezza, ognuno deve fare il proprio dovere, guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte. Gli approfittatori dell’una o dell’altra parte costituiscono i buchi neri della nostra società

Non sempre il modo di vivere dettato dal Vangelo passa dall’omelia alla vita di ogni giorno dei fedeli

Tante volte, iniziando la settimana, ho suggerito ai miei compagni di strada di agguerrirsi con alcuni propositi per affrontare e risolvere positivamente i problemi che avrebbero incontrato lungo il breve tratto di strada costituito dai sette giorni che stavano loro davanti.

E’ sempre facile esortare a partire con coraggio, con ottimismo, con la fiducia di chi sa d’avere il Signore sempre accanto, pronto ad allungare una mano per porci aiuto nel caso di bisogno. I fedeli che mi stanno davanti silenziosi, compunti ed apparentemente convinti, mi hanno sempre dato la sensazione di condividere questi propositi, però poche volte ho avuto modo di verificare come hanno attuato questo modo di progettare e di vivere il quotidiano. O peggio, ho sempre avuto modo di vedere come normalmente sono riuscito io a tradurre questi propositi in uno stile di vita coerente.

Spesso mi è capitato di concludere che il mio sermone era quasi soltanto una esercitazione più o meno convincente di oratoria religiosa, ma non una seria determinazione ad adottare uno stile di vita ed una mentalità che si rifacesse ai criteri richiesti dal Vangelo. Quando leggo gli atti degli apostoli, che riportano lo stile delle prime comunità di cristiani, mi viene sempre da domandarmi: “ma come facevano i presbiteri di allora a passare convinzioni e coerenza così forti?”.

Leon Blois mi direbbe che solamente la santità può risolvere tutto, il guaio è che l’essere santi è una delle cose più difficili che l’uomo possa attuare; non per questo, però, ho diritto di rinunciarvi.

Che gioia, in tanti sono interessati alla Cittadella della solidarietà!

Durante la settimana mi ha telefonato il dottor Paolo Fusco, giornalista di “Gente Veneta”, per domandarmi un incontro per mettere a fuoco qualcuno dei problemi che egli sa che mi stanno a cuore e che, per motivi professionali, ma spero anche di ordine morale, stanno a cuore anche a lui.

Era un po’ preoccupato di disturbarmi e di turbare la presunta quiete di questo prete ormai in pensione.

Gli dissi che un prete non si disturba mai, memore di un pensiero del principe del foro veneziano, l’avvocato Carnelutti. Questo uomo di cultura e di fine sensibilità cristiana affermò un giorno che non esiste lo scocciatore, ma si può invece incontrare l’uomo poco aperto e disponibile alle esigenze del prossimo. Io poi sono sempre disponibile alle richieste degli operatori dei mass-media, perché sono convinto che se non si matura una cosiddetta “cultura” attorno ad un problema, ben difficilmente si troverà chi sia disposto a dare una mano per risolverlo.

Precisato questo, tra tanti altri problemi, ho parlato al dottor Fusco della “cittadella della solidarietà”, una specie di Nomadelfia mestrina in cui si trovi “tutto per i poveri”.

Di certo la prossima settimana uscirà un servizio su “Gente Veneta” (questo, NdR), il settimanale diocesano, su questo argomento. La meta della realizzazione è certamente lontana, ma già da ora la stampa è favorevole, sono favorevoli il Patriarcato e le autorità comunali. Pare che pure la Società dei 300 Campi, proprietaria del terreno, sia disponibile ad una trattativa. Un’altra impresa ci mette a disposizione cinquantamila metri quadri per un eventuale scambio di terreno ed un’altra società ancora, che tratta di voltaico, è disposta a regalarci il “tetto” della cittadella, in cambio della possibilità di collocarvi i pannelli.

Tutto questo non è proprio poco, alla distanza di poco più di un mese dal lancio dell’idea!

C’è chi cerca “aria di onestà, di ricerca appassionata di libertà interiore e di sano coraggio!”

Anche oggi, come faccio da quattro anni due volte la settimana, sono andato a portare nell’espositore vicino alla cappella dell'”Angelo” e nel grande ballatoio soprastante “l’oasi” verde, la produzione dell’editrice de “L’Incontro”.

Lunedì scorso avevo portato un migliaio di copie del settimanale, una cinquantina del volume “L’albero della vita” per l’elaborazione del lutto, una cinquantina di copie del libretto delle preghiere, un centinaio di copie di “Coraggio” ed una cinquantina del mensile “Sole sul nuovo giorno”.

Come avviene quasi sempre, non c’era più niente del grosso malloppo che avevo portato alcuni giorni prima.

Si potranno trovar fuori mille difetti e limiti della produzione letteraria della nostra editrice, ma non quello, e non è certamente poco, che le sue pubblicazioni non risultino gradite al pubblico della nostra città!

Sentivo in questi giorni che tutti i quotidiani, settimanali e mensili, anche a livello nazionale, subiscono un enorme calo, tanto che qualcuno è costretto a chiudere, mentre le nostre pubblicazioni, che certamente non competono con questi giganti della carta stampata, non solo non sentono questa crisi, ma sarebbero in costante aumento, se non fossimo trattenuti dalle difficoltà di carattere finanziario.

Una signora, qualche giorno fa, forse me ne ha dato un motivo credibile: «In quello che scrivete si avverte aria di onestà, di ricerca appassionata di libertà interiore e di sano coraggio!” Sono convinto poi che a questo si aggiunge che gli argomenti trattati non sono mai oziosi e marginali, ma vanno sempre al cuore della vita.

Sant’Agostino aveva proprio ragione!

Da molti anni godo della stima e dell’affetto di due giovani imprenditori. Dico “giovani” perché per me, più che ottantenne, due sposi che celebrano le nozze d’argento sembrano tali.

Quando facevo le prime classi delle elementari, guardavo quelli della quinta come fossero uomini già vissuti. E’ normale che col passare degli anni i rapporti di età rimangano sostanzialmente uguali. Al “don Vecchi” ci sono delle signore non molto lontane dai cento anni che talvolta, certamente anche un po’ per vezzo, ma soprattutto per questa legge di natura a cui ho accennato, mi ritengono, nonostante la mia veneranda età, “ancora un bambin!”

Pochi giorni fa questi “ragazzi” di cui parlavo prima mi hanno scritto una bella lettera dicendomi che celebravano le loro nozze d’argento e, per festeggiare l’evento, avevano pensato di sottoscrivere 20 azioni per la costruzione del “don Vecchi” di Campalto, allegando alla lettera mille euro. Confesso che non mi sarebbe dispiaciuto che mi avessero invitato a celebrare la messa per solennizzare l’anniversario, ma ciò non mi ha sorpreso più di tanto, perché non ho ricordi di averli mai visti in chiesa. Con loro non ho mai affrontato il problema della fede e della pratica religiosa, non so se per timore di avere una risposta negativa o per il mio naturale rispetto delle posizioni religiosi degli altri. Essi certamente sanno come la penso io al riguardo.

Quando però ho visto il “segno” scelto da loro per la liturgia delle nozze d’argento, ho d’istinto pensato a ciò che afferma sant’Agostino: «Ci sono persone che Dio possiede e che la Chiesa non possiede». Mi sono messo il cuore in pace perché è certamente meglio che quei due sposi vadano d’accordo con Dio piuttosto che con la Chiesa.

Il compito che sento di dover svolgere all’interno della Chiesa

Il giorno dell’Ascensione, durante il sermone, ho invitato i fedeli che gremivano la mia povera chiesa a domandarsi, sulla scorta del fatto che Cristo ritornava al Padre perché aveva terminato la missione che gli aveva affidata, quale ritenessero la loro missione specifica in questo mondo. Spero che ognuna delle 250-270 persone presenti si sia posta la domanda e si sia data una risposta precisa, poi abbia verificato se il proprio comportamento era coerente ed in linea col proprio compito specifico.

E’ evidente che per fare questo discorso preciso agli altri, prima di tutto me lo ero proposto io stesso, e siccome comincio fino dai primi giorni della settimana a riflettere sulle tematiche che poi pongo ai fedeli, per tutta la settimana non ho fatto altro che meditare sul tema del brano del vangelo e in maniera particolare dell’omelia. La riflessione ha tenuto conto di tutto lo spettro della vita, ma soprattutto si è soffermata su un obiettivo ben preciso: “che compito sento di dover svolgere all’interno della Chiesa?” Mi pare abbastanza logico che un prete si ponga una domanda del genere, e non in termini generici, che sono abbastanza scontati ed universali.

La risposta s’è andata via via precisando, riducendosi a formula precisa, che credo potrei tradurre così: “sforzarmi di far scendere dall’altare, dall’acqua santa, dall’incenso e dai tanti riti la mia religione, perché si incarni, ossia diventi il respiro, la luce e il sangue del vivere quotidiano”. Di certo questo è un aspetto parziale, ma per un cristiano ed un prete quale sono io, non è certamente un aspetto da poco.

Riuscire a togliere dalla vita gli spazi vuoti per fare più opere buone

Qualche giorno fa stavo percorrendo con passo veloce il “corso” del “don Vecchi”, ossia l’asse viario più importante del Centro, il corridoio dal quale si smistano gli altri corridoi minori sui quali si affacciano gli ingressi del piccolo borgo degli anziani.

Una residente, molto probabilmente influenzata dal fatto che ho subìto una recente operazione chirurgica, mi ha detto: «Ma don Armando, lei è sempre di corsa!» Un dolce rimprovero comprensibile in un luogo in cui tutti vanno piano, spesso appoggiandosi al bastone o al deambulatore, ora molto di moda. «Ho poco tempo, signora», le ho risposto. Difatti ho veramente poco tempo, da un lato perché forse gli impegni che mi prendo sono troppi, e dall’altro lato perché mi pare ovvio che una persona che ha più di ottant’anni deve essere conscia di non avere troppo tempo davanti a sé.

Neanche a farlo apposta l’indomani mi capitò di leggere, durante la messa, quel brano di san Giovanni in cui Gesù dice agli apostoli: «Ancora un poco e mi vedrete, un altro poco e non mi vedrete, perché vado al Padre».

La misura del tempo degli uomini è sempre “un poco”; l’importante però, penso, sia riempire questo “poco” fino all’orlo. Mons. Bosa, mio insegnante di fisica, ci insegnava che se potessimo togliere la distanza che passa fra atomo e atomo, la terra si ridurrebbe ad una sferetta di pochi centimetri. L’importante perciò è togliere dalla vita gli spazi vuoti tra azione ed azione, allora anche nel “poco” ci starebbero un’infinità di opere buone!