Impegnarsi per gli altri è sempre più difficile in questa società

Mi pare che Cuccia, proverbiale governatore di Medio Banca, rappresentasse l’icona eterna del responsabile di questa prestigiosa banca alla quale facevano riferimento le principali aziende del nostro Paese.

Un vecchio, curvo, metodico, assiduo al lavoro che per infiniti anni governò con saggezza e determinazione questo istituto bancario. Arrivò a tarda età, sempre più curvo e taciturno, ma infine dovette cedere anche lui lasciando ad altri questo compito immane. La fatica, la costanza e la determinazione di Cuccia non fu però inutile.

Io non ho nulla della austera ed emblematica figura di Cuccia, ma sento ogni giorno di più il peso e la responsabilità di portare avanti nella nostra città e soprattutto nella nostra chiesa il compito complesso e gravoso di rendere  visibile e fattiva la carità predicata da Cristo e lasciandola come eredità inamovibile. Predicare la carità cristiana nei fervorini e nei sermoni religiosi spesso è pressoché inutile e talvolta perfino ipocrita, tradurre il messaggio cristiano della solidarietà in operatività, in strutture, in servizi è terribilmente impegnativo.

Comunque è bene che tutti ci ricordiamo almeno due passaggi del discorso di Cristo a questo riguardo: “Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre” e noi sappiamo fin troppo bene quale esso è. Il secondo: Gesù nella parabola approva il figlio che dice di no d’andare a lavorare nella vigna, ma poi pentitosi ci andò.

Oggi calate delle nubi della mistica l’impegno a “farsi prossimo” è terribilmente difficile e complicato: si parano subito davanti i soldi, le pratiche burocratiche, i permessi, i consigli di amministrazione, la politica, la burocrazia, i vicini di casa, i professionisti, i colleghi, i giornali e soprattutto le norme!

Ne so io qualcosa con Campalto, sono passati sei mesi abbiamo impegnato un sacco di riunioni, di parole e di progetti e non solamente non abbiamo messo giù una pietra, ma neanche ne abbiamo tolta una sola della struttura che dobbiamo abbattere per iniziare la costruzione.

Prima della fine ne dovremo fare di sacrifici!

La difficile gestazione dell’ostello S. Benedetto

Sto vivendo un tormentone circa la realizzazione di quello, che finora, abbiamo chiamato “L’ostello S. Benedetto”, per indicare una struttura d’accoglienza per cittadini extracomunitari che vivono a Mestre.

L’idea era partita dalla constatazione delle condizioni, a dir poco disumane, in cui dormono certe persone giunte dai paesi dell’Europa dell’est o dalle coste dell’Africa settentrionale, per cercare migliori condizioni di vita nel nostro Paese.

Specie gli ultimi arrivati che riescono a passare tra le maglie larghe dei nostri interminabili confini, spesso con l’appoggio di parenti o compaesani che vivono da anni in Italia, portano con se un gruzzoletto di denaro che esauriscono ben presto mentre si danno da fare per trovare un qualsiasi impiego. Quasi sempre risolvono il problema dell’alloggio facendosi accogliere nell’appartamento di un conoscente che offre loro un materasso steso per terra per 5 euro alla notte, dividendo i 70 metri dell’alloggio di fortuna con altri dieci-quindici ospiti.

Entrano a casa tardi e escono presto, specie se l’appartamento è in affitto,perché il padrone e i condomini non lo vengano a sapere.

L’intenzione di offrire un alloggio umano ad un prezzo corrispondente al rimborso spese è certamente valido però dopo un colloquio con il responsabile di una associazione che si occupa da vent’anni di queste cose, ho capito perfino troppo bene che il mio progetto è un’utopia che non regge all’esperienza.

D’altronde impiegare almeno due miliardi di vecchie lire su un progetto certamente traballante e pericoloso, anche per gli stessi beneficiari, sarebbe un azzardo che non mi posso e non mi debbo permettere.

Sto quindi ripiegando sulla linea del Piave, prevedendo una struttura per anziani autosufficienti, sulla scorta dell’esperienza del don Vecchi, con qualche inserimento prudente di qualche extracomunitario in attesa di fare ulteriori esperienze in merito.

La lunga strada verso l’ostello

In queste ultime settimane abbiamo “grattato il fondo della pentola” della Fondazione, dell’Associazione “Carpenedo solidale” e di qualche altro per raccogliere gli ultimi spiccioli, al fine di acquistare la vecchia locanda di Campalto che, fino a qualche anno fa, aveva ospitato la comunità di tossicodipendenti guidata da Don Franco De Pieri.

Sognavo di fare di questa struttura, che porta i segni consistenti del degrado per l’abbandono, ma soprattutto del passaggio di ospiti che non hanno buoni rapporti col rispetto delle cose e del vivere civile, un alloggio civile perché la gente che viene da lontano e che si sobbarca nei lavori più umili ricevendo i compensi più bassi, possa trovare un letto, delle lenzuola pulite e stanze accoglienti dopo giornate di duro lavoro.

La pentola ripulita non si riempirà tanto presto, ed è soprattutto la motivazione che sorregge il nostro sogno, pare non trovi purtroppo un largo consenso tra la nostra gente. Prova ne sia la ribellione dai toni meridionali della Cipressina per un precedente tentativo e la telefonata ironica di una signora che aveva appena letto il “Gazzettino” con questa notizia. Purtroppo a Mestre alligna più razzismo di quanto non si possa immaginare! Stando così le cose non c’è molto da sperare.

Sennonché, se Dio è dalla nostra parte, non ci sarà da preoccuparsi dei sentimenti e pregiudizi della gente. Tutto lascia sperare che le cose stiano proprio cosi. Una vecchia amica si è offerta di vendere un suo garage e di darmene il ricavato.
La Carive si è posta il problema di pensare al sociale e si è ricordata di questo vecchio prete! Se sono rose fioriranno. Mi auguro proprio di essere sulla traiettoria del buon Dio, in fondo non tento altro che di aiutare i suoi figli che Egli più ama.

Un ostello per i lavoratori extracomunitari a Mestre

Due, tre mesi fa avevo scritto al sindaco e poi all’assessore al patrimonio che, se mi avessero dato in concessione una struttura dismessa di proprietà del Comune, l’avrei restaurata ed adibita ad alloggi per lavoratori extra comunitari che operano a Mestre. Lo spirito xenofobo che serpeggia in città, lo ritengo un sentimento ignobile, incivile, anticristiano ed assurdo in questo tempo in cui è appena iniziata la mescolanza di nazionalità, tradizioni e culture, e non potrà che crescere in questo tempo di globalizzazione generalizzata.

Per un certo tempo dal Comune non giunge risposta, sennonché, in prossimità dell’inaugurazione del Don Vecchi di Marghera, momento in cui il Comune non poteva non prendere atto che facciamo sul serio e che agiamo coerentemente alle scelte annunciate, arrivò una telefonata dell’assessore al patrimonio, signora Rumiz, che mi metteva a disposizione una casa nell’area dell’ex IVA a Marghera. Presi la palla al balzo, anche se nel frattempo la fondazione che presiedo aveva acquisito una ex locanda a Campalto. Un giovane geometra del Comune mi accompagnò.

Prima difficoltà il cancello arrugginito che non si apriva, ma accanto scoprimmo ben presto un varco sulla rete che vi poteva passare una corriera. Il comune aveva murato porte e balconi; apposto inferriate per impedire l’ingresso agli extracomunitari, ma in ogni fabbricato, però, vi avevano aperto dei varchi in cui si poteva entrare. Il paesaggio era davvero desolante: abbandono, sporcizia, ruderi ed erbacce!

Quello, però, che mi colpi di più, fu una famigliola che si era sistemata alla meno peggio in una sala. Una giovane mamma con al petto un bimbo di qualche mese che poppava; un giovane uomo che chiedeva per piacere di poter rimanere ancora un paio di giorni. Mi vergognai e mi sentii colpevole di averli privati di una soluzione abitativa precaria, desolante, ma sempre una soluzione.
Ci penso sempre!

Farò di tutto perché l’ostello diventi un centro di accoglienza e di solidarietà.